Lo stato corporativo e la politica evanescente

Le poche settimane di vita del governo 5 Stelle/Lega bastano a confermare che nelle società complesse l’alternativa alla democrazia rappresentativa non è la democrazia diretta. L’alternativa (però instabile, come si dirà poi) è invece lo Stato corporativo, lo Stato dominato da alcune (poche) potenti corporazioni. Nulla di nuovo, in realtà. Lo Stato corporativo appartiene alla nostra storia. La sua forza e la sua presenza sono maggiori in certe fasi e minori in altre. Si manifesta con la maggiore intensità quando le classi politiche parlamentari, fulcro e baricentro della democrazia rappresentativa, sono, per qualsivoglia ragione, deboli, fragili, delegittimate. Da questo punto di vista, l’attuale «governo del cambiamento» è un governo della continuità. Solo che la perdurante debolezza della classe politica parlamentare, unita alle ideologie dominanti fra coloro che nominalmente controllano l’esecutivo, sta esasperando certi tratti della nostra tradizione.

Non c’è novità, per esempio, nel fatto che, come già mostrano le prime mosse del governo, la scuola continui (è sempre stato così), ad essere «appaltata» ai sindacati. Così come non è novità il fatto che il ministero della Giustizia sia sotto il controllo della magistratura ordinaria (un controllo che, di sicuro, non può essere scalfito dalle contingenti polemiche di un sottosegretario leghista).

È stato così anche in altre fasi. Però l’ideologia giudiziaria dei governanti (i 5 Stelle ma anche i leghisti quando non sono sotto inchiesta) ci mette sopra un carico da novanta, ne incoraggia le tendenze più integraliste, le meno sensibili di tutte alla questione dei diritti individuali di libertà. Ancora: bisognerà aspettare che giunga a termine l’iter del nostro spoil system, che il ciclo di nomine governative nei vari rami si esaurisca per farsene un’idea definitiva, ma già ora si può dire che il «potere di governo» dell’alta burocrazia e delle magistrature amministrative non sarà minimamente intaccato. Una certa novità arriva con il «decreto Dignità». Esso è frutto di una visione anti-impresa e ostile al libero mercato che accomuna buona parte del governo e della maggioranza alle correnti dominanti (è lecito definirle veterocomuniste?) della Cgil. L’ottimo ministro dell’economia Giovanni Tria serve al Paese. Ha il compito di rassicurare (per quel che è possibile) sulla tenuta dei nostri conti, soprattutto bloccando le pensate più pazze («basta con l’euro» e simili). Ma, a quanto pare, è l’alleanza governo/Cgil (a meno che in Parlamento non si verifichino clamorosi, ma improbabili, voltafaccia) a dominare l’agenda economica.

Le corporazioni usano il linguaggio del «bene comune»: la tutela dei lavoratori, la dignità della scuola, la difesa della legalità, la buona amministrazione. Ma è la loro volontà di potenza a prevalere. Quando le classi politiche parlamentari sono forti (ossia, quando la democrazia rappresentativa gode di buona salute), esse riescono a tenere a bada le suddette corporazioni. Ciò che viene ingenuamente chiamato «perseguimento del bene comune» altro non è che l’attività di mediazione fra interessi (e fra sensibilità ideologiche) differenti, e della loro aggregazione in una qualche sintesi più o meno unitaria, svolta da una classe politica espressa da elettorati eterogenei e compositi. È questa attività di mediazione e di sintesi – possibile solo in presenza di classi politiche forti e legittimate – che permette di mantenere un qualche equilibrio fra gli interessi delle corporazioni più potenti e gli interessi degli altri gruppi.

Essa può, ad esempio, assicurare che nei processi educativi le esigenze degli insegnanti, rappresentati dai sindacati, non prevalgano sulle esigenze degli utenti del servizio. O, ancora, che il legittimo interesse pubblico al perseguimento dei reati sia bilanciato dall’uguale interesse pubblico alla tutela delle garanzie personali, delle libertà individuali. O che l’interesse all’auto-riproduzione dell’alta burocrazia non entri in conflitto con la necessaria efficienza amministrativa. O che ci sia equilibrio fra le richieste sindacali e le esigenze delle imprese. Non è questo il caso italiano.

Lo Stato corporativo è un composto instabile. Nel nostro tempo, esso non può sbarazzarsi del tutto della democrazia rappresentativa. La sostanza è corporativa ma il guscio è democratico. Alle corporazioni farebbe comodo una divisione del lavoro in base alla quale la «polpa» (degli interessi) spetti alle corporazioni medesime mentre i «ragazzi», i politici rappresentativi, si baloccano con i simboli. Ma la cosa non funziona così. Per varie ragioni. In primo luogo perché i simboli non sono inoffensivi: la politica simbolica incide sulla realtà e provoca reazioni. Ad esempio, il (debole) politico rappresentativo può dire no alle grandi infrastrutture oppure ai vaccini obbligatori perché si tratta di mosse ad alto contenuto simbolico, mosse che mandano in brodo di giuggiole certi segmenti del suo elettorato. Ma non può pretendere che ciò non susciti le reazioni rabbiose dei tanti che si sanno colpiti e danneggiati. In secondo luogo, perché, mancando una regia unica, non c’è verso di bloccare la naturale, endemica, conflittualità che oppone i vari protagonisti: lo Stato democratico-corporativo assomiglia al saloon di un vecchio western ove, periodicamente, scoppiano risse furibonde (come ora quella fra certi settori della magistratura e il ministro Matteo Salvini).

In terzo luogo, e soprattutto, perché lo Stato corporativo, per la formazione culturale e gli interessi dei suoi protagonisti, può gestire, accompagnare e favorire il declino economico di un Paese ma non può rilanciarne lo sviluppo. C’è incompatibilità fra lo Stato corporativo e la parte economicamente più dinamica d’Italia. Non possono non entrare in rotta di collisione. Estrarre a sorte i nomi dei senatori come propone Beppe Grillo? Uno vale uno? Le corporazioni che più ci guadagnano quando la politica è evanescente, applaudono di sicuro.

CORRIERE.IT

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