Giornali e campagne poco serie

Domani il Parlamento europeo voterà la direttiva dell’Unione sul diritto d’autore che prevede da parte delle piattaforme hi tech che distribuiscono contenuti, il pagamento di chi quei prodotti musicali, video o giornalistici, ha confezionato. Un primo voto per un provvedimento che dal 2016 attende il via libera. Già a luglio era approdato nell’Aula di Bruxelles. Ma l’assemblea ha deciso un altro rinvio. Un rinvio non scontato, vista la larga maggioranza della quale disponevano sulla carta le norme. Ma dovuto a motivi precisi. Da molto tempo è entrata in campo la più potente delle lobby, quella dei «titani del web», come li ha definiti l’Economist. Facebook e Google in prima linea. Così potente da arrivare ad arruolare buona parte degli studi legali di Bruxelles per contrastare il provvedimento. È stata alimentata una campagna on line e un’offensiva culturale sui rischi connessi alla direttiva. Arrivando a parlare di bavaglio per gli utenti che si sarebbero trovati nelle condizioni di non poter postare più contenuti con la conseguenza di inaridire il fiume del dibattito pubblico. La verità è che si sta correndo il rischio contrario.

Il saccheggio continuo di contenuti di qualità sta rendendo sempre più difficoltosa e costosa la loro produzione. Lo dimostra la moria di giornali oltre Atlantico e in Europa. Il drenaggio inesorabile di risorse del mercato pubblicitario da parte dei colossi del web sta mettendo a rischio l’informazione di qualità.

Non c’è bisogno di tornare a Jürgen Habermas per comprendere quanto sia importante un «dibattito pubblico informato» per tenere assieme i leader, la politica e il popolo, il demos. Perché attraverso di esso si può formare un’opinione pubblica consapevole. Perché la democrazia di questo si nutre.

Quanto della discussione sull’obbligatorietà sui vaccini è alimentata da false convinzioni se non addirittura fake news? E lo stesso dibattito improvvisamente riacceso sulla chiusura domenicale dei negozi, non ha oscurato quello sulla manovra che per forza di cose come dimostrano la Borsa e lo spread di questi giorni deve essere orientato alla prudenza sui conti e non alla battaglia contro l’Europa?

Il sondaggio Ipsos di settimana scorsa pubblicato sul Corriere del 5 settembre ha mostrato quanto la percezione degli italiani sia lontana dalla realtà del Paese. In tutti i campi. Certo, l’informazione seria a volte fatica a far comprendere il valore del proprio lavoro. Anche perché la massiccia distribuzione che ne fanno le piattaforme tecnologiche senza distinguere tra contenuti certificati e non, mette sullo stesso piano prodotti che uguali non sono. E non certo per amore del dibattito.

Social network, motori di ricerca, grandi gruppi come Amazon, ma anche Apple e Microsoft, si contendono l’attenzione e il tifo degli utenti. Perfettamente lecito. Ma non per questo meno dannoso. Gli inglesi lo chiamano «engagement». Più il singolo consumatore sta sulla loro piattaforma, più sono in grado di accumulare dati, sul cliente o su comunità di clienti. Informazioni che possono essere elaborate continuamente dai loro potenti server per poter vendere altri servizi. Come la pubblicità.

Si chiama «potere conglomerale». Un processo che Adam Candeub, docente di diritto della Michigan University ha delineato in un recente articolo della rivista Journal Law and policy for the information society. In molti casi si offrono servizi gratuiti perché larga parte dei ricavi provengono da servizi accessori come appunto la pubblicità. Per conquistare l’attenzione dei consumatori, la strada migliore è disporre di contenuti.

Le piattaforme si definiscono come meri distributori visto che a postare sono gli utenti. E per questo vorrebbero da un lato essere esentati da qualsiasi responsabilità, dall’altro evitare di dover corrispondere alcunché a chi quei contenuti ha prodotto.

Ma allora, cosa dicono di così terribile le possibili norme europee per aver scatenato la pesante reazione dei signori dell’hi-tech? A essere contestati sono soprattutto due articoli. Il numero 11 e il 13. Il primo prevede che se si distribuiscono contenuti e si realizzano ricavi e guadagni (si monetizza), parte dei ricavi vengano girati a chi quei prodotti ha realizzato.

Altro che bavaglio. Non si tratta di fermare la possibilità del singolo di postare musica, video o articoli. Se accade con Whatsapp dove non c’è apparente guadagno da parte dell’azienda, la direttiva non interviene. Ma se si usano altre piattaforme che ci lucrano si capisce come ci si sposti sul piano del business.

Ecco perché l’altro articolo nel mirino, il numero 13, chiede ai signori del web di filtrare in automatico contenuti protetti da copyright. E nel caso le piattaforme non abbiano accordi con chi li ha prodotti di fermarli. Cosa che già Facebook, Google e gli altri big fanno con quei contenuti che possono configurare reati come l’odio razziale. Quel voto di domani va al di là della remunerazione del lavoro dei singoli o delle organizzazioni intellettuali. Ma è per la difesa di valori che ci riguardano tutti.

CORRIERE.IT

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