Non si cambiano gli uomini per piegare le regole

Non contento d’aver intimato al ministro dell’economia e delle finanze di trovare le risorse per mantenere le arrischiate promesse fatte nella campagna elettorale, il M5S mette nel mirino anche il Ragioniere generale dello Stato. Non riuscendo a piegare le regole al proprio volere, vorrebbe cambiare gli uomini garanti, nell’interesse generale, del rispetto di quelle regole, perché più si distribuisce oggi, più aumenta il debito, più domani gli italiani dovranno pagare per restituire le somme prese a prestito.

L’intenzione manifestata da rappresentanti del governo è grave in quanto il Ragioniere generale dello Stato, sottoposto alla infelice legge dello «spoils system», è stato appena confermato dal governo stesso, anche se per un periodo breve di tempo (fino al maggio prossimo). Ed è tanto più grave in quanto la Ragioneria generale, a capo della quale sta il Ragioniere, è il cuore dello Stato, il guardiano dei conti pubblici nell’interesse dei cittadini. Questa è una struttura frutto della riforma De Stefani del 1923. De Stefani, ministro delle finanze fino al 1925, attuò un disegno lungamente maturato, fin dai primi anni dopo l’Unità, quello di dotare lo Stato di un controllore dei conti, mettendo la Ragioneria generale al di sopra di quelle centrali e periferiche, e facendola diventare quindi il centro di una rete di osservatori e custodi dei conti.

La Ragioneria generale divenne tanto importante e rispettata che Vitantonio De Bellis, titolare di quella carica dal 1919 al 1932, pare fosse l’unico che osasse dire no al Duce. Quest’ultimo, in una lettera a De Stefani, scrisse: «la gente pensa che al di sopra di me e di lei, vi sia un misterioso dittatore: Vitantonio De Bellis». De Stefani, a sua volta, disse di De Bellis: «possiede l’intransigenza di un domenicano, odiato da tutti per l’inflessibilità nel difendere il denaro del popolo».

Di Maio deve aver ora sognato di poter osare quello che neppure Mussolini tentò, visto che l’attuale Ragioniere generale non è meno domenicano del suo predecessore, nel difendere il denaro del popolo. Si conferma così l’atteggiamento del governo nei confronti dei titolari di uffici pubblici di ogni specie, ministeri, autorità indipendenti, agenzie: cambiare gli uomini per adattare le regole dello Stato alle promesse fatte in campagna elettorale da un partito.

Questo tipo di minacce ha un duplice effetto. Uno diretto, quando la minaccia diventa realtà, e il governo riesce a nominare propri fedeli. Uno indiretto, quando la minaccia non può trovare attuazione e rimane un mero avvertimento. In questo secondo caso, crea un clima generalizzato di timore, quello di poter perdere il posto, ed ha un effetto di fidelizzazione sui funzionari meno capaci o con più debole spina dorsale.

Emerge qui un errore madornale del centro sinistra, confermato dal centro destra, quello di aver iniziato l’epoca degli spoils system, ora divenuti una vera e propria famiglia di istituti, tutti ispirati all’idea che i politici, nello Stato, nelle regioni e negli enti locali, non debbano soltanto dare gli indirizzi, ma possano anche sostituire gli uomini. Il sistema per cui il vincitore politico prende le spoglie dell’avversario vinto, introdotto sul finire dello scorso secolo, e finora gestito con discrezione, ha mutato il modello costituzionale del funzionario pubblico imparziale, perché così ogni nuovo governante nomina i propri fedeli, come se non bastassero gli uffici di «staff», cioè i gabinetti ministeriali, che cambiano di regola col passaggio degli esecutivi. Non ultimi inconvenienti della sistematica interferenza della politica nei posti amministrativi sono il vestito d’Arlecchino che il frequente ricambio dei governi produce, la perdita di tecnici che hanno esperienza e conoscono i precedenti, lo sconcerto e la frustrazione che questi ricambi producono nei più giovani, che vedono arrivare sulla loro testa, nei posti ai quali essi aspirano, persone nominate dall’esterno o da altri uffici interni, per meriti politici.

CORRIERE.IT

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