La manovra torna ostaggio

La notizia è che la manovra torna di nuovo ostaggio del “gioco politico” italiano. E della confusione (e relativa tensione) all’interno del governo. Qualunque sia la ragione – e su questo torneremo – il dato politico è che stavolta l’Europa, intesa come fattore esterno di “destabilizzazione”, non c’entra. E non c’entrano i mercati che, invece, proprio sulla soluzione “all’italiana” trovata fino a ieri, sembravano aver trovato la ragione per rinviare l’Apocalisse.

Perché questo è il punto. Ricapitoliamo brevemente: all’inizio, quando è stata concepita, la manovra prevedeva un impegno finanziario non derogabile di sedici miliardi di euro da destinare alle due misure simbolo del governo gialloverde, il reddito di cittadinanza e “quota cento”. Tutto e subito. Nell’ultima versione, quando è stata scritta, quei fondi non sono più vincolati alle due misure ma possono essere utilizzati anche per altro, come la riduzione del deficit. Mossa furba e molto all’italiana, che consentiva a Di Maio e Salvini di dire che si faranno, in tempi tutti da definire, ma al tempo stesso consentiva di disinnescare la reazione dei mercati. Entrambe le misure, così è stato scritto nel Def, venivano rinviate a dei “collegati” ovvero in provvedimenti successivi alla manovra. Per i non addetti ai lavori: il collegato è un disegno di legge che, considerati i tempi parlamentari, avrebbe reso assai complicato approvare le misure in un paio di mesi. Il combinato disposto dei fondi resi non “vincolati” e dello strumento del ddl, di fatto, svuotava la manovra. Certo, senza annunciarlo con le fanfare, ma dava non pochi margini di gioco, perché, allungando i tempi e dunque facendo entrare in vigore le misure più in avanti nel tempo, si riduceva l’asticella del rapporto deficit-Pil. Non sarebbe bastato a Bruxelles per evitare una procedura di infrazione, che ormai appare scontata. Però la soluzione trovata consentiva sufficienti margini di ambiguità per salvare la faccia, perché comunque l’impegno rimaneva, ma, al tempo stesso, di ridurre la posta nel gioco d’azzardo con i mercati.

La novità odierna, e non è affatto un dettaglio, è che questo “patto silenzioso” con l’Europa, con relativo gioco delle parti, è tornato in discussione, almeno così pare, per ragioni tutte di politica interna, dopo giorni in cui, dopo i giudizi delle due agenzie di rating e i primi stress test sulle banche, sembrava essersi placato l’allarme sui mercati (leggi qui la polemica Giorgetti-Di Maio). Le ragioni, come spiega Pietro Salvatori nel suo pezzo, sono molteplici: l’ansia politica crescente di Di Maio che, ad ogni sondaggio, vede che il Movimento continua a perdere punti a vantaggio della Lega; la conseguente frenesia dichiaratoria che lo spinge a precipitarsi su facebook appena letta qualche frase di Giorgetti, contenuta nel libro di Vespa, e raccolta chissà quanto tempo fa; la tensione che, ormai, investe ogni singolo dossier di governo – dalla Tav alla prescrizione – e che rende legittima la domanda, sempre più frequente in casa leghista, su “quanto si può andare così”. Sia come sia, qualunque sia la ragione, o le tante ragioni di questa confusione, la tensione manovra, diventata una sorta di perenne “incompiuta”, disvela un evidente problema di fragilità politica della coalizione e, perché no, di tenuta stessa del governo. Su un provvedimento di 36 miliardi, ad oggi 16 sembrano sospesi per aria, e riguardano le due misure “bandiera” di Lega e Cinque Stelle: quota cento e il reddito di cittadinanza. In particolare quest’ultimo, a cui i Cinque Stelle affidano le speranze di risalita nei consensi alle Europee. Giorgetti dice che è di difficile attuazione, Di Maio annuncia (lo aveva fatto anche mesi fa) un “decreto” a Natale per accorciare i tempi e ridurre i rischi, la Lega sul decreto non risponde e in manovra è scritto che sarà tutto rinviato a un disegno di legge. A poco serve un incontro “chiarificatore” in serata tra Conte e lo stesso sottosegretario con le classiche dichiarazioni rasserenanti: non capiamo le polemiche, siamo uniti… C’è una manovra scritta in cui resta possibile anche risparmiare del tutto quella cifra. E una manovra orale, che quel compromesso lo rimette in discussione. Per dare un ordine di grandezza: 16 miliardi sono circa un punto di Pil e quasi la metà della manovra. Al momento il governo, nel suo insieme, non li ha collocati. E stavolta l’Europa matrigna non c’entra.

L’HUFFPOST

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