Il big bang del renzismo
Ecco il big bang. Del renzismo, chissà del Pd. Adesso anche Teresa Bellanova, la pasionaria della Leopolda, sta pensando seriamente di candidarsi alla segreteria del Pd. Decine di incontri sul territorio e anche nel Palazzo. Ci crede: “Io – ripete – non sono seconda a nessuna. In molti me lo stanno chiedendo. Valuterò”. Poche settimane, proprio alla Leopolda, aveva parlato in chiusura, prima del Capo. Tutti avevano capito che era un segnale, quasi un’investitura. Aveva urlato alla curva gasata, interpretandone la pulsione viscerale, “noi non chiederemo mai scusa”. Mai. Poi Minniti, che sprezzante dice (a lei e Renzi): “Il ticket non è all’ordine del giorno”.
Ci sta che, dopo aver pensato di essere l’erede ed essere stata rifiutata come vice, sia un po’ agitata. Come andrà a finire, ancora non si sa. Si capisce che c’è una gran confusione, forse creata ad arte, forse spontanea, forse frutto di una dinamica mal gestita perché, dice un parlamentare vicino a Luca Lotti “se la linea è che noi abbiamo fatto tutto bene, e sono gli italiani a non averci capito, se noi siamo puri e tutto il resto è tradimento, è logico che qualcuno, o qualcuna in questo caso, si senta il Pavolini della situazione”. Avete sentito bene. Queste parole le dice chi, nei tavoli che contano, è seduto accanto a Luca Lotti, finora braccio destro (e sinistro) del Capo, artefice delle trattative più delicate.
Un vecchio cronista capisce che lì dentro sta succedendo qualcosa. La chiave di lettura la dà Deborah Serracchiani, ai bei tempi anche lei renziana di ferro e ora sostenitrice di Maurizio Martina: “Vuoi la bussola? È questa. C’è chi vuole stare dentro il Pd, e cambiarlo, trasformarlo, anche radicalmente, ma comunque stare dentro. E chi pensa che vada fatta un’altra cosa, fuori dal Pd”.
Dentro o fuori, è il dilemma irrisolto (e il dramma) del Capo. Cioè di Renzi, tentato dal fare altro, costretto a misurarsi con un congresso mai voluto. Ovvero costretto a misurarsi con un partito diventato contendibile e con un potere non più assoluto. Col “dopo di sé”, prospettiva indigeribile per chi crede che, senza di sé, non c’è niente che abbia senso. Perché, diciamoci le cose come stanno, tutta questa storia parte da un vorrei ma non posso, che è altresì una tentazione mai sopita e una amara presa d’atto mai elaborata fino in fondo: se si fosse candidato – e ci ha pensato, eccome – avrebbe rischiato l’effetto referendum, quello di essere travolto da un plebiscito contrario. Nasce da questa paura, di una risposta definitiva e inesorabile, il cambio di schema. Si è visto al congresso in Lombardia, dove Renzi ha benedetto il suo candidato e ha vinto l’altro, Vinicio Peluffo. È stata la reazione a un marchio che di questi tempi funziona come un boomerang. E ora è il primo a sapere che, alla fine, sia pur disastrato e tenuto assieme con la colla, il partito che uscirà da questa pugna non è più il suo. C’è molta verità nell’analisi consegnata a qualche amico da quella vecchia volpe di Dario Franceschini: “Chiunque vinca il congresso non vince Renzi”. Perché uno, Zingaretti, lo archivia brutalmente, l’altro lo porta a una evoluzione. È comunque un’altra cosa.
Le avvisaglie di questo travaglio sono già evidenti negli spazi di autonomia che Marco Minniti, sia pur a fatica, si sta ritagliando per non apparire, e non essere, “il candidato di”. E infatti non è scontato che Luca Lotti sia il coordinatore della sua lista, anzi su questo c’è una certa tensione. Amplificata dai casini che qualcuno ha già combinato sulle liste dei sindaci che lo sostengono. In Calabria e Campania alcuni hanno dichiarato che non ne sapevano nulla, altri hanno dichiarato di essere di Forza Italia. In parecchi gli hanno ricordato che Lotti è indagato sul caso Consip e rischia un rinvio a giudizio. Non proprio uno spot per un ex ministro dell’Interno che vuole interpretare il nuovo corso.
A questo punto del discorso, tenetevi forte e immaginate di essere Renzi, con i tanti vorrei ma non posso e una irrefrenabile pulsione al protagonismo, non importa come, anche come presentatore di un programma (a proposito, neanche quello va in onda per ora). La Bellanova accarezza l’istinto, per la serie “non può finire così, tu sei tu, contiamoci, nel caso ce ne andiamo e facciamo un’altra cosa”, Lotti la ragione, la gestione dell’esistente, il compromesso possibile nelle condizioni date, perché comunque vincere con Minniti è pur sempre una vittoria, una bella fetta di potere se non proprio tutta la torta. Sembra che a cena l’altra sera, gli abbia chiesto una “quota” del 70 per cento delle liste. Voi capite che non è poco.
Lui, Renzi, asseconda l’uno e l’altro, creando tensioni che poi sfuggono di mano, perché chi si sogna Macron non può essere un capocorrente, col rischio di rimanere nel limbo di non essere il primo e di perdere il congresso. Perché poi, va raccontato anche questa cosa del partito di Renzi. Se ne parla, sono stati fatti incontri, circolano anche sondaggi – quello di Agorà lo darebbe al 12 per cento – ma di concreto, al momento, c’è assai poco, come la famosa rete dei comitati civici, entità metafisica e intangibile, l’abracadabra del mago Scafarotto: compaiono nelle dichiarazioni, non hanno indirizzo nella realtà. L’idea è quella di un listone civico nazionale, con la mitica società civile – imprenditori, intellettuali, sportivi – che rappresenti l’infrastruttura su cui atterrare, dopo il congresso, per un nuovo inizio. Per avere appeal serve la società civile, ma al momento questa lista assomiglierebbe solo a una corrente che esce dalla casa madre. Se ne parla, in Transatlantico: “Sai – dice l’acuto Raciti, siciliano raffinato – dal big bang nasce l’universo. Non mi pare questo il caso”.
L’HUFFPOST
This entry was posted on venerdì, Novembre 23rd, 2018 at 11:11 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.