Lo scenario invernale delle elezioni anticipate
Stavolta il governo non cadrà ma, per come si sono messe le cose, non è affatto certo che passerà indenne anche attraverso la stagione invernale. Anzi, è assai probabile che presto, all’improvviso, verrà l’ora di elezioni politiche anticipate. Secondo l’ex rettore della Bocconi Guido Tabellini la crisi potrebbe arrivare anche prima delle europee dal momento che, quando a inizio 2019 sarà chiaro che l’economia non riparte (o è in recessione) e che l’equipe di Giuseppe Conte non è in grado di far fronte alle emissioni dei titoli, la situazione finanziaria peggiorerà e a quel punto sarà difficile che il governo riesca a sopravvivere.
Perché? Cosa è cambiato in questo ultimo mese? La grande spinta propulsiva della «coalizione da contratto» era data dalla (quasi) avvenuta fusione tra gli elettorati di Cinque Stelle e Lega. Per alcune settimane, dopo le elezioni del 4 marzo, i popoli delle due formazioni si erano praticamente amalgamati fino a diventare pressoché indistinguibili l’uno dall’altro. In realtà questo abbraccio era iniziato già dal 2011, quando l’opposizione al governo Monti (e a tutti quelli che sono venuti dopo) indusse i seguaci di Matteo Salvini e quelli di Luigi Di Maio a comportamenti e linguaggi sempre più simili. I temi di mobilitazione erano diversi ma, se capitava di intercettare alla radio o in tv un elettore di Lega o Cinque Stelle, era arduo capire all’istante a quale delle due formazioni appartenesse.
Tutto portava all’incontro tra Salvini e Di Maio e fu questo, assai più che l’indisponibilità del Pd, a far venire allo scoperto la base parlamentare che consentì il varo dell’attuale governo. L’andamento delle settimane successive sembrava procedere in direzione di un abbraccio sempre più stretto finché non hanno cominciato a insinuarsi come agenti tossici i risultati dei sondaggi estivi che segnalavano la virtuale crescita del partito di Salvini a detrimento di quello di Di Maio (sondaggi che puntualmente venivano confermati in ogni parte d’Italia da turni di elezioni amministrative). Dopodiché, fosse stato per Di Maio, probabilmente l’equilibrio creatosi attorno alla figura di Conte non avrebbe subito scossoni. Ma il mondo pentastellato è stato messo in fibrillazione da esponenti piccoli e grandi (Beppe Grillo compreso) che, dall’interno, davano segni di non rassegnazione al nuovo «regime», pretendevano che si tornasse su un terreno rivoluzionario e che fossero fatti valere i progetti contenuti nel programma elettorale. Il tutto si traduceva poi in crescente insofferenza nei confronti del Carroccio. Sicché Di Maio — la cui leadership, va ricordato, non era mai stata in alcun modo consacrata — per recuperare slancio e immagine si è visto praticamente costretto a battibeccare pressoché quotidianamente con Salvini. Salvini non si è tirato indietro e lì equilibrio tra i due è andato in frantumi. Irrimediabilmente.
Si è giunti così a un punto di non ritorno. La legge che nel mondo occidentale ha fin qui regolato la vita dei partiti sovran populisti — come è stato osservato su La Stampa da Giovanni Sabbatucci — prevede che tali partiti o movimenti siano uno (non due) e che abbiano un leader incontrastato. Se sono più di uno, le loro rispettive strategie sono destinate a sovrapporsi, cresce la tentazione a moltiplicare le iniziative dispendiose e ne vengono fuori conflitti che irrimediabilmente si accavallano l’uno con l’altro. In una successione sempre più rapida. Peggio: se uno dei due partiti decide di azionare il freno non è detto che l’altro lo segua (anche solo per non offrirgli un vantaggio tattico); mentre se uno degli stessi partiti sceglie di accelerare, il «rivale» sarà indotto — per ovvi motivi di competizione — a premere a sua volta sull’acceleratore ancora di più. Lo si è potuto constatare nel confronto tra il governo e l’Europa. In più occasione è parso che qualcuno dall’interno dei due schieramenti fosse disponibile a un cedimento, quantomeno tattico, di quelli suggeriti dai loro ministri che vantano un profilo politico più attenuato. Immediatamente si è levato un leader a richiamare la compagine all’ordine, ad ammonire che non è questo il tempo di rallentare e a spronare i due eserciti a rimettersi in movimento. Con gli effetti di cui diceva Tabellini.
Questi effetti hanno un costo specifico addirittura più alto di quello delle fantasiose misure proposte. Talché se anche i provvedimenti non dovessero giungere al traguardo o venissero adesso attenuati, il prezzo pagato dal Paese sarebbe comunque elevato. Ed è un prezzo interamente riconducibile al conflitto tra Lega e Cinque Stelle, per di più pagato in anticipo.
Ora un accordo con l’Unione europea lo si potrà anche trovare e — va detto — è ammirevole la prudenza con la quale alcuni rappresentanti della Ue trattano il caso italiano. Ma è improbabile che, una volta rotto l’accordo tra le forze di governo, i mercati tornino a fidarsi delle prospettive del nostro Paese. È ormai chiaro che stiamo vivendo una fase di passaggio e che solo la vittoria nelle urne di una coalizione il cui programma sia stato votato dagli elettori potrà offrire stabili prospettive. Allo stato attuale i corpi elettorali dei due partiti hanno votato due programmi diversi e solo la fusione di questi elettorati in un’unica entità avrebbe potuto offrire l’energia per un governo in grado di durare. Ciò che le ultime settimane ci hanno dimostrato non essere avvenuto. E adesso non è più sufficiente a sorreggere la legislatura l’occasionale cautela di qualche leader più responsabile o l’indisponibilità dei parlamentari a mettere a repentaglio i seggi conquistati appena sette mesi fa. È troppo tardi. Né è davvero praticabile l’ipotesi di un governo quale quello che il Capo dello Stato ipotizzò prima dell’estate per Carlo Cottarelli. Mario Monti nel 2011 ce la fece ma poté contare sulla disponibilità di deputati e senatori di Forza Italia e del Pd, i due maggiori partiti dell’epoca. Anche oggi, forse i parlamentari berlusconiani e piddini si metterebbero a disposizione per una «soluzione tecnica», ma nel frattempo i partiti più consistenti sono diventati altri (Cinque Stelle e, in prospettiva, Lega) per i quali sarebbe suicida, dopo aver lasciato cadere il proprio governo, farsi portatori d’acqua di un gabinetto a loro estraneo. Ragion per cui un Monti redivivo avrebbe minori probabilità di successo persino di Conte. Quanto all’ipotesi di un governo di centrodestra che nascesse con l’«acquisto» di parlamentari grillini o della sinistra (all’attenzione di magistrati che già in passato si sono occupati di eventi della stessa natura), essa appare davvero poco realistica.
È per questo che, a meno di miracolose riconversioni alla concordia, il tema delle elezioni anticipate tornerà presto d’attualità. E magari — anche in virtù di una ricollocazione del partito di Grillo e Casaleggio — diverrà nuovamente attuale anche la classica divisione del campo elettorale in destra e sinistra. Con robuste innervature d’Europa, di culto delle compatibilità economiche, di osservanza delle più elementari norme democratiche in entrambi gli schieramenti. Capaci questi schieramenti di darsi il cambio alla guida della cosa pubblica passando per il voto in regolari elezioni che si terranno alla scadenza naturale. Dopodiché resterebbero sul terreno molti degli attuali problemi. Ma la memoria di una stagione, non solo italiana, di demagogica guerra all’Europa, di prolungato caos e di idee pazze sperimentate a dispetto di ogni più elementare evidenza, resterebbe solo un brutto ricordo.
CORRIERE.IT
This entry was posted on lunedì, Novembre 26th, 2018 at 15:34 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.