Obbligati a scegliere

Quest’ultimo passaggio ha uno sfondo autocritico, dal momento che se Di Maio avesse consultato i ceti imprenditoriali non avrebbe varato il cosiddetto Decreto dignità. Gli altri due spunti di analisi riguardano la natura del Movimento che ha sempre rigettato il proposito di costituirsi in partito e ne paga lo scotto. Perché, a differenza di ciò che scrive Di Maio, il risultato abruzzese non è il frutto di una oscillazione dei consensi che non preconizza alcun declino, ma è piuttosto il prodotto di un trend decrescente del Movimento che non sa tradurre la protesta in politica di governo: a livello locale come a livello nazionale.

I movimenti di natura politica, infatti, hanno un codice genetico che presiede alla loro nascita. Quello del M5S è la protesta, anche giusta e legittima, frutto del malessere prodotto dalla grande crisi, soprattutto nel Mezzogiorno. La protesta produce una sequela di no: no Tav; no Tap; no trivelle, no vaccini e chi più ne ha più ne metta. Sono no che si dislocano nell’arco destra/sinistra in modo equilibrato. Infatti, i 5 Stelle hanno sempre rifiutato una collocazione. Ma andati al governo si deve scegliere, tanto più se da movimento si vuol divenire partito. Così, se si fa politica anti migratoria si dà ragione a Salvini e l’elettorato pentastellato di destra lo premia. Se, invece, si insegue il moralismo intransigente non si può assolvere Salvini sul caso Diciotti perché l’elettore 5 Stelle si astiene. Di Maio dimentica che un partito di governo deve passare dal no al sì. Deve scegliere e quindi collocarsi. Nel frattempo chi non ha dubbi di collocazione, come Salvini, è vincente.

QN.NET

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