Boccia: “Serve un piano shock: apriamo i cantieri per ripartire. Il governo è ostile all’industria”
Non
vede, come il governo, una ripresa nella seconda parte dell’anno per
effetto dei provvedimenti varati con la legge di Bilancio a partire dal
reddito di cittadinanza?
«Noi non la vediamo la ripresa. Le nostre imprese associate ci dicono
che anche a gennaio si avvertono cali di fatturato e l’eventuale effetto
sulla domanda interna auspicato dal governo non basterà a contenere il
rallentamento dell’economia. Occorre fare anche altro, non si può
prescindere dalle ragioni dello sviluppo. Perché la questione sociale si
deve affrontare puntando sullo sviluppo. Dobbiamo combattere la
povertà, non rischiare di far aumentare gli attuali cinque milioni di
poveri».
Ritiene, dunque, che sia necessaria una manovra correttiva entro l’estate? Di quale entità? Quali misure servirebbero?
«La prima cosa da fare è aprire immediatamente i cantieri usando le
risorse già stanziate. Il che significa non fare ricorso al deficit e
creare occupazione. L’Ance (l’associazione dei costruttori, ndr) indica
per le sole opere di valore superiore a 100 milioni di euro risorse
stanziate per 26 miliardi in grado di generare centinaia di migliaia di
posti di lavoro. Il nostro centro studi prevede che in tre anni potremmo
avere un incremento del Pil dell’1 per cento solo grazie a queste opere
a cui vanno sommate tutte le altre. Occorre un vero piano shock per il
Paese e non penalizzare le imprese e il lavoro».
Siamo diventati un Paese a rischio deindustrializzazione?
«Siamo un Paese che — nonostante sia la seconda manifattura d’Europa e
debba vedersela con Paesi come Cina, Usa e Germania che puntano
sull’industria — ancora dibatte ed è ostile all’industria. Un vero
paradosso per un Paese che spesso perde di vista i suoi fondamentali
economici: esportiamo 550 miliardi di euro di cui 450 grazie
all’industria e questo significa attrarre ricchezza nel Paese e per il
Paese».
Si riferisce all’ostilità del Movimento cinque stelle?
«Ci riferiamo alle scelte del governo. Per noi il governo è tutt’uno».
Andrete in piazza per sostenere la ripresa dei lavori per la Tav?
«Siamo stati tra i primi a manifestare il 3 dicembre a Torino con altre
undici categorie. Rinunciare a un’opera come la Tav, rinunciare a una
parte finanziata dall’Europa, rinunciare all’occupazione che a regime
generebbero i cantieri — secondo uno studio della Bocconi darebbero
lavoro a 50.000 persone — in questo momento storico della vita economica
dell’Italia e dell’Europa è davvero incomprensibile. Ma non è questo il
momento della piazza».
Perché siamo gli unici in
recessione in Europa? È colpa delle scelte di politica economica del
governo o è colpa delle imprese che non investono più?
«Purtroppo siamo quelli che subiscono di più il rallentamento.
L’industria tedesca peggiora, ma la Germania sta pensando a misure
importanti sul fronte imprese e infrastrutture. E noi? Come intendiamo
reagire? Ancora a cercare di chi è la colpa? Così troviamo altri alibi?
Occorre una stagione della consapevolezza e della reazione: oramai è
finita quella degli alibi, delle colpe e di quello che personalmente
chiamo il “presentismo”».
Resta il fatto che il sistema
produttivo italiano è fragile con troppe piccole imprese, scarsamente
innovative. Anche qui è responsabilità della politica o degli
imprenditori che fanno male il loro mestiere?
«Questi sono i soliti preconcetti di tanti. Ma qualcuno si è chiesto
come facciamo a essere la seconda manifattura d’Europa nonostante i
deficit di competitività del Paese? Una nostra impresa paga il 20% di
tasse in più, il 30% di costo dell’energia in più e il Paese ha tempi
della giustizia lunghissimi e infrastrutture inferiori alla Germania
eppure siamo secondi ed esportiamo grazie all’industria 450 miliardi.
Sfideremmo qualsiasi Paese al mondo ad arrivare secondo con i nostri
deficit di competitività. Questo significa che abbiamo un apparato
industriale fatto di imprenditori e lavoratori di primo piano e dovrebbe
farci fare i conti con le nostre potenzialità».
Teme la
minaccia del governo di far uscire le aziende pubbliche, dall’Eni alle
Poste, dalla Confindustria? Quanto versano le imprese pubbliche nelle
casse della Confindustria?
«Questa è un’altra grande fake news. Le “pubbliche” rappresentano il 2%
dei voti e il 4% dei contributi che per Confindustria nazionale
significa circa un milione di euro. Sono imprese quotate. Queste
“minacce” non mineranno la nostra autonomia».
Lei però è stato eletto anche grazie ai voti dei gruppi pubblici.
«La mia elezione non è dovuta alle aziende pubbliche: sia per i voti che
rappresentano e sia perché hanno scelto in modo diverso. Ad esempio
Finmeccanica e Fincantieri non mi hanno votato».
È favorevole all’intervento dello Stato per l’ennesimo salvataggio di Alitalia? Alle imprese serve una compagnia di bandiera?
«Non siamo favorevoli a salvataggi con i soldi dei contribuenti. All’Italia e alle imprese servono vettori e aeroporti efficienti che colleghino il Paese al mondo. Non vorremmo che dietro questo nuovo interventismo pubblico vi sia solo una logica elettorale e assistenzialistica nonché tanta voglia di spartirsi un po’ di poltrone».
REP.IT
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