Dopo il voto in Basilicata l’Italia del 4 marzo non c’è più
Cinque delle quali conquistate nell’ultimo anno, in piena era gialloverde: Friuli, dove Salvini vinse pressoché da solo; il Molise, unica regione dove è finito sotto Forza Italia, l’Abruzzo dove è volato al 27 per cento, la Sardegna, dove ha vinto senza sfondare e dividendo i suoi voti col Partito Sardo d’Azione, la Basilicata, altro capitolo di un centrodestra a trazione sovranista, ma su questo torneremo tra un po’. Aggiungendo la Lombardia di Attilio Fontana dove si votò a marzo 2018 e la Sicilia di Nello Musumeci, dove si votò a novembre del 2017, siamo a sette vittorie di fila in un anno e mezzo circa.
Insomma, si sarebbe detto una volta: il Parlamento non è più specchio del paese. E, se per questo, nemmeno il Governo. Il che è un dato politico, non estetico, perché la spinta, la domanda, gli interessi, che arrivano dall’Italia profonda chiedono un’altra rappresentanza. È un po’ come quando Renzi iniziò a perdere ovunque sui territori e poi arrivò il 4 dicembre. Perché ogni voto è un voto politico. C’è poco da girarci attorno. Questi numeri pongono la questione del “che fare” per Salvini. Di più o di meno a seconda delle zone, è lui il vincitore e, per la prima volta – questo è il vero punto – inizia a penetrare, in modo impensabile fino a qualche anno fa, nel Sud, dove negli ultimi anni è avvenuto un cambiamento epocale.
Una volta filo-governativo per definizione nel lungo ciclo della Prima Repubblica e granaio di consenso del Potere finché ha funzionato la leva della spesa pubblica, negli anni della crisi il Mezzogiorno è diventato il termometro delle sperimentazioni politiche e del voto cangiante, anticipando le novità nazionali: il grande successo di Renzi alle europee, poi la valanga dei Cinque Stelle, ora la Lega e l’ecatombe dei Cinque Stelle che, caso unico nella storia nazionale, perdono più della metà dei voti in regioni – Abruzzo, Sardegna, Basilicata – dove solo un anno fa registravano percentuali “maggioritarie”. Ottantamila voti in meno in dodici mesi, in Basilicata: da 139.158 (44 per cento) a 60.000 (20 per cento) circa, nonostante il varo del reddito di cittadinanza e lo scandalo giudiziario sul governatore uscente. Sulla carta, l’habitat naturale per tenere.
La dimensione dello “spostamento a destra” è davvero significativa. In Basilicata, alle scorse regionali, la Lega neanche si presentò. Alle politiche di un anno fa prese il 6,28 per cento (19.704 voti). In un anno ha più che raddoppiato i suoi voti raggiungendo il 19,1 (in termini assoluti: 53.851). Ed è assai indicativa anche la crescita della Meloni passata dal 3,6 delle politiche (11.587) al 5,9 di queste regionali (16.616) soprattutto se questi dati vengono messi in relazione alla flessione di Forza Italia, passata dal 12 delle politiche al 9, anche se al dato vanno sommate altre liste “moderate”, come Idea di Quagliariello (4) e la lista del presidente (4).
Detta in modo un po’ brutale: siamo di fronte certo a un nuovo centrodestra, in cui Salvini è egemonico, ma non autosufficiente, ed è egemonico il blocco sovranista con Giorgia Meloni, ma non autosufficiente. In Basilicata la somma delle liste sovraniste, all’interno del centrodestra raggiunge il 25 per cento rispetto al 17 di quelle moderate. In Abruzzo il gap era maggiore, però la tendenza è evidente. Politicamente parlando è un trionfo, con un però, che riguarda la possibile ricaduta di questo tsunami permanente in termini di governo. Se la strategia è “spolpare” alleati antichi (Berlusconi) e nuovi (Di Maio) per poi presentarsi come l’artefice, al momento giusto, di un nuovo ’94 sovranista, ebbene questi numeri dicono che il tempo non è ancora maturo. Perché da solo Salvini non basta. E se è prematuro dire che queste elezioni stanno risuscitando un nuovo bipolarismo, perché non francamente non si intravedono “poli” politici compiuti, è altrettanto vero che stanno risuscitando le “coalizioni” come unica forma per competere. E la più forte, in grado di vincere ovunque nei collegi, è proprio quella che finora Salvini ha dimostrato di non volere più.
Pare una tecnicalità, ma non è un dettaglio, perché questo gigantesco spostamento a destra pone il Pd di fronte all’urgenza di trovare una “forma” già in vista delle Europee. È vero, il dato è migliorato rispetto a un anno fa. Alle politiche il centrosinistra prese il 19,61 (61.547 voti) a cui andavano sommati i 20mila di Leu. Stavolta la coalizione ha raggiunto il 33 per cento (98mila voti) che è un balzo in avanti. Però è ancora una coalizione “informe”, col simbolo del Pd “nascosto”, come accaduto anche altrove e come accadrà anche in Piemonte il 26 maggio, in una selva di liste e listarelle. “Nascosto” perché non tira più, dopo la cura dell’era Renzi. Il problema è come portare dentro questa nuova “circolazione extracorporea”, in una elezione come le europee dove il simbolo del Pd sarà usato e si voterà un partito, non un insieme di liste. L’Italia del 4 marzo non c’è più, ma l’Italia che verrà non c’è ancora, in attesa dell’ultima tappa di questo ciclo il 26 maggio, giorno in cui si vota per le Europee e per il Piemonte, dove la discussione nella Lega, con questi numeri al Sud, è se lasciare il candidato a Forza Italia o giocare ad asso pigliatutto.
L’HUFFPOST
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