Quanto costerà la Brexit ai cittadini italiani?
Ricadute sull’export: i dazi
Le esportazioni italiane verso la Gran Bretagna ammontano a 23,1 miliardi di euro l’anno, mentre le nostre importazioni dal Regno Unito ne valgono 11,4. Siamo quindi titolari di un surplus commerciale di oltre dieci miliardi (dato Ispi), anche se i flussi verso l’Inghilterra rappresentano solo il 5% del nostro export totale, mentre Francia e Germania arrivano al 7%. Tra i più importanti (12,2% dell’export totale) il settore vini e bevande: 1,16 miliardi di dollari, finisce in Inghilterra, calcola l’ufficio studi di Confindustria. Mentre per i prodotti agroalimentari siamo a 2,6 miliardi, il 7,8% del totale.
La tagliola dei dazi, che allunga i tempi e alza i prezzi, potrebbe scattare dopo un anno dal divorzio. Nel caso di vini e formaggi si parla del 32-35%. Una bottiglia da 30 euro, insomma, dopo aver pagato il dazio, a Londra ne costerebbe 40. A gennaio, secondo gli ultimi dati di Federalimentare, l’export di prodotti agroalimentari italiani nel Regno Unito è aumentato del 17,3% rispetto allo stesso periodo del 2018. Difficile non leggere nel fenomeno la corsa al magazzino prima che i prezzi si impennino. Il rischio però è che, in prospettiva, l’export di Made in Italy freni invece di continuare a crescere. Qualche esempio dei prodotti più venduti: nel 2018 in Gran Bretagna hanno bevuto 109 milioni di bottiglie di Prosecco, una su quattro, visto che sul mercato internazionale ne sono arrivate 466 milioni; mentre il mercato inglese del Parmigiano e Grana Padano è a quota 85 milioni di euro. L’impatto negativo complessivo può valere 2,6 miliardi (stime Oliver Wyman) e a risentirne di più saranno le piccole aziende. Ci sarà anche un problema di tutela dei marchi: senza la protezione europea rischiano di subire la concorrenza sleale dei prodotti di imitazione da paesi extracomunitari.
Servizi finanziari: chi dovrà andarsene
L’Italia e la Gran Bretagna sono in affari di notevole entità, soprattutto nel settore dei servizi finanziari. Le imprese britanniche di investimento operanti in Italia in regime di libera prestazione (cioè senza succursali) sono ben 2.120 (Consob) e dopo la Brexit perderanno il «passaporto» per fare business nella Ue. In questo universo, dai dati di Banca d’Italia, troviamo 92 banche, 111 gestori di fondi, 280 istituti di pagamento, 105 istituti di moneta elettronica e 53 compagnie assicurative. Tra i più importanti ci sono Aon, Mastercard, American Express, Schroder, The Royal Bank of Scotland. Che cosa accade ora? Il decreto Brexit del governo, rimesso nel cassetto dopo la nuova proroga ottenuta da Theresa May, concedeva agli intermediari finanziari britannici in Italia diciotto mesi di tempo per garantire la prosecuzione dei contratti di investimento fino a scadenza, e dei pagamenti. Vuol dire, per fare un esempio estremo, che dopo il «divorzio» 9,7 milioni di assicurati italiani con polizza britannica, che pagano 1,7 miliardi di premi l’anno (dato Ivass) potrebbero dover cambiare compagnia. Di conseguenza il mercato, senza più un elevato numero di concorrenti, diventerebbe più povero e più caro per i consumatori finali.
Cosa fare per restare
Per non rischiare di chiudere l’attività con i Paesi Ue, molti intermediari che battono bandiera inglese si stanno organizzando per restare: spostando la sede in qualche Paese europeo o con succursali italiane. I Lloyd’s, per esempio, hanno già aperto in Belgio. E così hanno fatto le banche globali prima basate a Londra. Le americane Citigroup, Goldman Sachs e Morgan Stanley hanno scelto Francoforte. Altre hanno fatto rotta su Parigi. Molti piccoli gestori di fondi hanno già aperto una pratica per spostarsi, nell’eventualità, in Lussemburgo e Irlanda. Milano è rimasta quasi a bocca asciutta. Secondo le stime dell’associazione italiana banche estere, su 7 mila posti di lavoro pronti a traslocare nell’Unione da Londra (stime Ey), solo poche centinaia di professionisti della finanza sbarcheranno sotto al Duomo per effetto della Brexit. In compenso dall’inizio di marzo è tornato in Piazza Affari il mercato dei titoli di Stato europei. Era finito a Londra anni fa, quando la Borsa italiana è diventata parte del London Stock Exchange. Un trasloco importante: sono dodici i Paesi della Ue che vendono i propri bond tramite la piattaforma Mts cash, dove ogni giorno vengono scambiati 13,4 miliardi di euro di obbligazioni. Il 20% di questi volumi ora girano a Milano. Quanto vale? Secondo Select Milano si può però dire che, mentre profitti e ricavi restano a Londra, l’Italia beneficerà di effetti sul Pil, un po’ di gettito fiscale e qualche posto di lavoro.
Roaming addio e raddoppio rette universitarie
Viaggiare e studiare in Inghilterra diventerà più costoso. Dopo la Brexit ci vorrà il passaporto, costo 116 euro, mentre oggi basta la carta d’identità. Diventerà più caro l’uso del telefonino: il roaming gratuito vale solo nei Paesi Ue. Più care le tasse universitarie. Dai dati Miur Il 42% degli studenti italiani che mira ad atenei stranieri sceglie la Gran Bretagna. L’anno prossimo finirà il regime che concede agli studenti europei di pagare una retta non superiore a 9.250 sterline l’anno. Lo studente italiano quindi pagherà come quello che viene da Tokyo, Pechino o Bangkok: 20.000 sterline annue per una triennale. Anche lavorare in Gran Bretagna sarà più complicato. Oggi un italiano in Inghilterra può entrare ed uscire liberamente dal mercato del lavoro. Da ottobre chi resta disoccupato a Londra, pur munito di permesso, ha due mesi per trovarsi un altro posto. Se non ci riesce, good bye.
In conclusione: il bilancio comunitario sarà meno ricco, le nostre imprese dovranno affrontare barriere tariffarie penalizzanti, in prospettiva i nostri servizi finanziari potrebbero impoverirsi, mentre fare un viaggio in Inghilterra sarà più caro e laurearsi a Londra un salasso. Salvo intese ovviamente.
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