Il Paese viene prima
di Massimo Franco
In altri tempi, uno scontro nel governo come quello al quale stiamo assistendo sarebbe già sfociato in una crisi. Da ieri, la situazione è di nuovo in bilico. E un Matteo Salvini isolato in Europa, accerchiato dal Movimento Cinque Stelle ma tuttora molto forte nell’elettorato, ha evocato per qualche ora lo strappo. Avrebbe significato aprire la strada a probabili elezioni anticipate; e ufficializzare una rottura che avrebbe avuto come pretesto il voto del M5S a favore della presidente della Commissione Ue, la popolare tedesca Ursula von der Leyen, mentre la Lega si è barricata nel suo «no». Ma poteva essere qualunque altro motivo.
La gamma dei conflitti accumulati dopo le Europee del 26 maggio è ampia. La frenata brusca arrivata a tarda sera non chiarisce tuttavia la situazione. Eppure è arrivato il momento di spiegare al Paese che cosa la maggioranza populista e sovranista vuole fare della legislatura. Ha promesso di durare cinque anni. Invece, in tredici mesi il suo contratto è diventato carta straccia.
Dopo avere evitato in extremis, grazie alla mediazione del premier Giuseppe Conte, la procedura di infrazione per debito eccessivo, l’alleanza M5S-Lega a intermittenza muore e rinasce. Ma continuare per forza di inerzia moltiplica la conflittualità e l’immobilismo, facendo danni all’Italia. A distanza di 11 mesi, prima i 5 Stelle e poi la Lega hanno raccolto i consensi di un terzo dell’elettorato. Ora debbono dimostrare di avere meritato la fiducia. Sembrava che il vicepremier leghista e ministro dell’Interno si preparasse ad andare in udienza al Quirinale da Sergio Mattarella: avrebbe significato la resa dei conti finale.
Invece, niente. Nessuna crisi. Dopo avere dato l’impressione di avere ceduto alle pressioni di quanti, nella Lega, invocano la rottura e sono ansiosi di raccogliere quanto prima il bottino garantito dai sondaggi e certificato almeno in Europa, Salvini ha frenato. Eppure aveva messo in campo la «sfiducia personale» con il suo omologo del Movimento, Luigi Di Maio, e attaccato Conte. Il motivo inconfessabile era ed è che Salvini si sente in trappola. Se non scarta, per lui comincerà un lungo logoramento. La sua campagna europea si è tradotta in un trionfo italiano, e in un disastro continentale: i sovranisti sono stati esclusi dai grandi giochi. E nell’esecutivo è cominciata una manovra spietata per ridimensionarlo. Sommando a questo le ombre dell’inchiesta sui rapporti tra Lega e faccendieri russi, si capisce che per lui una crisi sarebbe la scorciatoia per scrollarsi di dosso questi fantasmi; o almeno per affrontarli senza sentirsi dire che «non può» andare al voto perché ha le mani legate. Le sue esitazioni dicono che presto potrebbe ritrovarsi una rivolta perfino dentro la Lega. Ma evidentemente la sua tentazione di fare saltare il banco presenta incognite che alla fine lo hanno fermato.
L’azzardo, per un leader del Carroccio che vive uno dei momenti peggiori, al momento è almeno congelato. La storiaccia dei finanziamenti chiesti dai suoi uomini a Mosca costituisce una zavorra pesante e un serio ostacolo nella corsa verso Palazzo Chigi. L’accelerazione e il ripensamento confermano che la tentazione delle urne rimane ma è frustrata. Il capo dello Stato pretende che siano spiegati i motivi di un’eventuale crisi. Poi dovrà capire se esiste una maggioranza alternativa: prospettiva improbabile. Lo spettacolo offerto da M5S e Lega è comunque sconcertante. Induce a pensare che la leggenda di un populismo destinato a guidare a lungo l’Italia stia finendo. Ma al rallentatore, e tra mille convulsioni.
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