Matteo ora trama per dividere il M5s
E già, gli uomini di Salvini sono sferzanti, provocano: entrano come un cuneo nelle contraddizioni tra l’area governativa del movimento e quella delle «origini». La ragione è quasi ovvia: se Salvini riuscisse a separare gli uomini di Di Maio dalle influenze di Fico o Di Battista, avrebbe fatto Bingo; si sarebbe trovato finalmente quell’alleato strategico di governo, che gli consentirebbe di fare a meno di quella coalizione, a suo avviso stantia, che è il centrodestra. Per cui sono giorni che gli uomini del vicepremier leghista mettono alla berlina l’anima movimentista dei 5 stelle: «Se fossero coerenti – osserva il vicesegretario del Carroccio fresco di nomina, Andrea Crippa – dovrebbero sfiduciare Conte dopo il sì alla Tav. Ma per questi la coerenza è peggio di una parolaccia». «Il problema sono quelli come Fico – sbotta Alberto Stefani -: sono fuori, non ci si ragiona. In una parola: sono communisti!».
Appunto, la tattica del vicepremier leghista è andare avanti con il governo, ma incalzando l’alleato e, magari, umiliandone l’anima movimentista, con due obiettivi: uno estremamente ambizioso, quello di modellare, manipolare i 5 stelle in modo che abbiano la faccia Di Maio, non certo quella di Fico, di Di Battista, oppure di Grillo. Con pentastellati che avessero quelle fattezze, l’accordo sul «contratto» si trasformerebbe in una vera e propria coalizione gialloverde, buona per il presente ma anche per il futuro. «Ci proviamo, ma è difficile», ammette il viceministro di Di Maio allo Sviluppo economico, il leghista Dario Galli. Il secondo è più di natura tattica: Salvini vuole andare al voto in primavera; sa che per sbarrargli la strada su al Quirinale progettano governi «tecnici», o altro, e che Giuseppe Conte potrebbe esserne protagonista; per cui tenersi stretto Di Maio e un pezzo rilevante dell’area parlamentare grillina, sarebbe l’antidoto più efficace contro un simile veleno.
Nel vis-à-vis di ieri tra i due vicepremier ci sono stati gli echi di questi ragionamenti. Doveva essere un pranzo, ma con Di Maio in ritardo, si è trasformato in un mezzo aperitivo. Salvini ha riproposto la questione Conte. «Giuseppe si è montato la testa – ha detto al suo interlocutore – questo è sicuro. Non so se gli hanno solleticato l’ambizione con questa storia del suo partito. O se, invece, è diventato solo uno strumento nelle mani del Quirinale: certe uscite non sono farina del suo sacco». A Salvini, per azzardare un paragone, gli avvenimenti di questi giorni ricordano il personaggio di un fumetto di successo di Bonvi di trenta anni fa: il nemico giurato del detective Nick Carter, quel Stanislao Moulinsky, capace di assumere la faccia di chiunque. Ebbene, per il vicepremier leghista il capo del governo, nei fatti, è Mattarella con la faccia di Conte. Peggio di lui per il vicepremier leghista c’è solo Toninelli, che andrebbe messo al rogo. Di Maio ha gettato acqua sul fuoco, ha difeso tutti, dal ministro delle Infrastrutture a Conte, anche se ha mostrato anche lui una certa diffidenza verso il premier: «Non è così, te lo assicuro, anche se certe uscite se le potrebbe risparmiare perché possono essere mal interpretate». Sulle prospettive, invece, hanno firmato l’ennesima tregua, con un’analisi speculare. «Andiamo avanti – ha tirato le conclusioni Salvini – anche se una parte dei miei rompe per andare subito al voto». «Proseguiamo – ha annuito Di Maio – anche se pure tra i miei ci sono quelli che rompono, pardon protestano».
Quelli che «rompono», naturalmente, sono soprattutto i grillini delle «origini», visto che nella Lega chi la pensa in maniera diversa dal segretario, ha solo una strada per difendere le proprie opinioni: fare le valigie. Motivo per cui Di Maio, dopo il trauma della Tav, nelle prossime settimane ha in mente di avviare un’offensiva della persuasione nel movimento. «Dobbiamo fare un bagno di realismo – ha spiegato al suo inner circle – perché in politica si può rinunciare a delle cose, per conquistarne altre». Ed ancora: «La verità è che con la Lega alla fine ci si capisce, perché ha un codice politico. Con alcuni dei nostri, invece, proprio no». Solo che nello «strano» movimento «il bagno di realismo» si fa rischiando pure figuracce (l’intemerata di Conte contro chi lo ha lasciato parlare in Senato in solitudine, con i banchi dei 5 stelle vuoti, ha fatto versare lacrime vere a Patuanelli) e innalzando i vessilli dell’orgoglio di partito: dal «conflitto di interessi» all’abolizione del canone Rai. Ma a conti fatti Giggino è pronto a parafrasare Lenin: «L’estremismo malattia infantile del grillismo». Spiega il capogruppo D’Uva: «Non è credibile che Conte abbia detto sì alla Tav senza aver sentito di Maio e Salvini. Nel movimento dobbiamo metterci in testa che una volta la nostra ambizione era qualche consigliere comunale, ora siamo al governo per cambiare il Paese. E ci resteremo, non torneremo alle origini. I movimentisti? Chi sono?! Fico? Dovrebbe essere terzo. La Lega? Al 34% è arrivata con noi, non con il centrodestra».
A ben vedere si vedono i tratti del grillismo diverso, che piace a Salvini. «Per stare al governo sono pronti a dare anche le mogli», osserva Lucio Barani, un tempo braccio destro di quel Denis Verdini che parla oggi di Salvini come un tempo il Machiavelli del Valentino. Pare che anche Verdini abbia gettato la spugna e abbandonato l’idea delle elezioni autunnali. La tabella di marcia prevede ora il voto politico in primavera. Con due prove generali. «In Calabria Salvini andrà da solo – ha spiegato ai suoi il nuovo Verdini-Machiavelli – per verificare l’appeal che ha nel Sud». La prova del 9, invece, ci sarà sull’Emilia a gennaio: poi, se tutto andrà bene, le politiche e Salvini premier.
IL GIORNALE
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