Salvini chiede a M5s l’argenteria di famiglia
Ecco il punto. È un cambiamento complessivo quello che Salvini chiede, anzi chiamiamolo col suo nome, l’umiliazione definitiva dell’alleato. O cambiano (guai a chiamarlo rimpasto) uomini, toni complessivi, agenda dando priorità ai cavalli di battaglia leghisti (autonomia, grandi opere, flat tax) o si vota. E la crisi sarà aperta subito. Ed è chiaro che, quando si parla di uomini, la richiesta è lo “scalpo” di Toninelli, il ministro no Tav bocciato dal Parlamento, della Trenta, l’ostacolo al monopolio salviniano sull’intero comparto sicurezza, e del ministro dell’Economia Giovanni Tria. Ecco, o gli alleati, finora solo complici, si trasformano in maggiordomi che consegnano l’argenteria di famiglia pur di tenere in piedi la casa o, se giudicano le richieste inaccettabili, game over. E il capo della Lega chiederà il mandato agli italiani per fare, incassato tutto ciò che si poteva incassare in termini di crociata securitaria e Tav, tutto ciò “che non ci fanno fare”. Anche le modalità dell’incontro pomeridiano a palazzo Chigi, fotografano un cambio di fase, con Di Maio, nella stanza accanto, che non partecipa al vertice a due tra Salvini e Conte. La triplice che fu si è rotta, e nella nuova geografia, i due si incontrano da pari a pari: non più il premier e il suo vice, ma il premier formale e il capo sostanziale.
Il vecchio governo non c’è più e il nuovo, sul guscio del vecchio, non c’è ancora. Perché le condizioni poste sono davvero al limite. E se il nome di Toninelli e della Trenta sono già di per sé pesanti, quello di Tria rischia di essere il vero detonatore del sistema: il ministro che rassicura Colle e mercati, la cui sostituzione equivale a lanciare un’Opa sulla finanziaria all’insegna del conflitto con l’Ue. Al netto di tutte le incognite su come si potrà gestire una roba del genere che richiede un passaggio formale al Quirinale (non si possono cambiare tre ministri senza una crisi “pilotata” e un Conte bis), al netto di una situazione inedita col Parlamento chiuso, al netto di tutto questo c’è la sostenibilità dell’operazione per i Cinque stelle, all’ennesimo bivio tra perdita del governo e perdita finale dell’anima. È chiaro che l’avallo di questo programma e di questo governo equivale, di fatto, alla nascita di un governo leghista sia pur senza Salvini a palazzo Chigi, e la trasformazione del Movimento in una costola della Lega.
È la fotografia di una verifica politica (di una crisi) aperta nei fatti, anche se non formalmente. La maggioranza di governo non c’è più, liquefatta nel voto sulla Tav, col presidente del Consiglio assente, due esponenti del governo che, a nome del governo, danno indicazioni di voto diverse sul comportamento da tenere, Cinque Stelle e Lega che si votano contro sulle mozioni. È un negoziato – ricordate i bei tempi della “trasparenza” – che si svolge nelle più classiche modalità della Prima Repubblica: minacce, trattative, ipotesi di rimpasto, sullo sfondo della crisi. È questo che ci sarà nei prossimi giorni. E non è un caso che Salvini ha annullato i suoi comizi diurni di giovedì, preferendo rimanere a Roma per una serie di incontri, anche con Di Maio, forse. E che Conte ha annullato la sua conferenza stampa (perché evidentemente) non sa che dire, in questa situazione di trattativa in corso. E i Cinque stelle hanno annullato la loro riunione serale, anche per evitare lo sfogatoio interno, perché qualcuno si sta chiedendo quanto si può andare avanti così e a che prezzo.
Prima di capire ciò che può accadere, è bene spiegare il perché di questa drammatizzazione il 7 agosto, che ruota attorno a una data: il 9 settembre, giorno in cui alla Camera si voterà – è l’ultimo passaggio – la riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari. Non c’entra nulla la volontà di autoconservazione della cosiddetta Casta che vuole difendersi le poltrone. Il punto è questo. Sulla carta il combinato disposto di questa riforma e dell’attuale legge elettorale favorisce Salvini perché i collegi più ampi che si determinano producono una torsione maggioritaria, con soglie implicite che favoriscono il partito più grande. Però Salvini ha capito che l’avvio dell’iter della riforma costituzionale (eventuale referendum e ridefinizione dei collegi) di fatto imbullona la legislatura per altri sei mesi. Non solo: ha capito che è, a quel punto, poiché la legge favorisce solo lui si aprirà il dibattito su una nuova legge elettorale. E in Parlamento in un minuto può spuntare una maggioranza per il proporzionale, la legge che in assoluto lo penalizza di più. Insomma, per la crisi siamo al più classico dell’“adesso o mai più”.
E se il 9 settembre spiega il 7 agosto, i giorni che verranno sono invece un’incognita sulle modalità e sui tempi di una eventuale crisi, a Camere chiuse. C’è uno snodo, cruciale, che riguarda il ruolo del capo dello Stato. I ben informati sostengono che, tra i Cinque stelle, circola la data del 13 ottobre, perché evidentemente tutti si aspettano che le richieste di Salvini siano “inaccettabili”. Il che significherebbe, calendario alla mano, che le Camere dovrebbero essere sciolte entro il 20 agosto. Crisi, consultazioni, scioglimento in 13 giorni. Tutto ruota attorno a una questione: se la crisi viene o meno “parlamentarizzata”, se cioè il capo dello Stato riterrà necessario spedire il governo alla Camere per un voto di sfiducia o no.
Al momento sono troppe le incognite, a partire dal “che farà Conte”, ma un fatto va registrato. Se un governo cade in Aula, di prassi, è quello stesso governo che, in carica per il disbrigo degli affari correnti, porta il paese al voto. Cioè si va alle elezioni con Salvini al Viminale e quindi controllore di tutto il sistema di voto. Per andare al voto con un Viminale più “neutro”, a garanzia di tutti, è necessario che ci sia un “governo elettorale”, che traghetti il paese al voto. E che dunque Conte non vada in Aula. Non è un dettaglio in questa precipitazione. Siamo al dunque. Scalpo o voto.
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