Crisi di governo: urla, rosari e rubli Tra Lega e 5 Stelle un finale con rissa
Conte all’attaco
Ma il premier, che è andato dal parrucchiere e offre ai riflettori una chioma particolarmente corvina, non raccoglie. Anzi, per mezz’ora abbandona l’involuto linguaggio da leguleio per andare giù piatto su Salvini. Lo tratta ora come un padre severo, ora come un professore indignato. Gli appoggia la mano sulla spalla mentre gli rinfaccia gli strafalcioni istituzionali e le scortesie umane, le assenze sgarbate, le convocazioni inopportune dei sindacati. Salvini a volte sogghigna come Franti, a volte appare seccato per l’umiliazione pubblica. Ma le accuse vere devono ancora arrivare. Riguardano la Russia. E il rosario. «Caro ministro, caro Matteo, se tu avessi accettato di venire qui al Senato per riferire sulla vicenda russa, avresti evitato al tuo presidente del Consiglio di presentarsi al tuo posto, rifiutandoti per giunta di condividere con lui le informazioni di cui sei in possesso…». L’attacco non potrebbe essere più duro: il premier rinfaccia al suo vice di tenere nascoste notizie che potrebbero nuocere al Paese «sul piano internazionale».
La seconda accusa è politicamente meno grave, ma scalda molto di più l’aula del Senato: «Chi ha compiti di responsabilità dovrebbe evitare, durante i comizi, di accostare agli slogan politici i simboli religiosi…». E qui Salvini dà mano al rosario con crocefisso. «Matteo questi comportamenti non hanno nulla a che fare con la libertà di coscienza religiosa, piuttosto sono episodi di incoscienza religiosa…». Ora Salvini il crocefisso lo bacia. Al di là dei passaggi grotteschi, come quando si dice ispirato «dal nuovo umanesimo» e rivendica di aver istituto il Giorno delle Tradizioni folcloristiche e popolari, il discorso di Conte più che un annuncio di dimissioni pare l’investitura di un nuovo governo. Il premier sale al Quirinale per rimettere l’incarico nelle mani di Mattarella, con la chiara speranza di riaverlo. Ma sarà dura per il Pd sostenere il capo dell’ex squadra gialloverde. Renzi fa sapere che per lui non c’è problema; ma proprio per questo Zingaretti, che non può farsi dettare la linea su tutto, chiede discontinuità. Fuori dal Senato i sostenitori di Conte, tra cui i compaesani di Volturara Appula, si azzuffano con i leghisti. Il leggendario Scilipoti apre al governo istituzionale: «Dovrebbero essere tutti come me: responsabili». Morra dei 5 Stelle rivendica di essere presidente dell’Antimafia e di essere credente pure lui.
Salvini col fiatone
Mentre i 5 Stelle acclamano Conte in piedi e Di Maio abbronzatissimo lo bacia, Salvini si alza e va a parlare dai banchi della Lega. La Casellati, oggi in viola, lo chiama di nuovo presidente, ma dalle file del Pd la rimbrottano: «Non è presidente, è ministro!». Lui elenca tutte le offese ascoltate da Conte — «pericoloso, autoritario, preoccupante, irresponsabile, opportunista, inefficace, incosciente» —, lo paragona ai cari nemici Saviano e Renzi, ma in sostanza non chiude, anzi: «Volete tagliare i parlamentari? Ci siamo. Se poi qualcuno volesse aggiungerci una manovra economica coraggiosa per bloccare aumenti e ridurre le tasse a dieci milioni di italiani, ci siamo». Quanto alla religione, Salvini precisa che all’immacolato cuore di Maria ha chiesto aiuto non per sé, ma per il popolo italiano. «Sei il nuovo Padre Pio!» gli gridano da sinistra, «stanotte riceverai le stigmate!». Il Truce fa la voce grossa, a tratti ha il fiatone, però quella che ai senatori pare difficoltà è semplicemente la sua oratoria: non sta parlando a loro, ma ai follower; è infatti in diretta facebook. «Stratosferico discorso del Capitano» twitta Luca Morisi, aizzatore della Bestia digitale. In attesa delle stigmate, il Capitano si proclama martire: «Volevate un bersaglio? Eccomi». Ora la Casellati lo chiama ministro, ma quelli del Pd non sono soddisfatti: «Non ministro, è un semplice senatore!». In realtà Salvini si guarda dal rinunciare al Viminale, sui social vola alto e cita Proust: «Molto spesso per riuscire a capire che siamo innamorati, forse anche per diventarlo, bisogna che arrivi il giorno della separazione». Come a dire ai 5 Stelle: siamo ancora in tempo a tornare insieme. La crisi mistica continua: «Voi citate Saviano, noi san Giovanni Paolo II!». Un senatore leghista, deferente, lo ascolta in piedi. Gli altri si alzano solo all’applauso finale. La Russa commenta la performance annotando che Salvini è pessimo stratega ma grande comunicatore, secondo solo ad Almirante. È anche un po’ fascista? «Non esageriamo con i complimenti». «Conte l’Italia è al tuo fianco» dice lo striscione portato qui dal paese natale. Scilipoti invoca dieci, cento, mille Responsabili. Morra ribadisce: «Sono presidente dell’Antimafia, e so bene che in Calabria ostentare crocefisso e rosario è un segnale alla ‘ndrangheta!».
Renzi nuovo D’Alema
Renzi, che fino a questo momento ha scritto messaggini sul cellulare con cinque dita tipo concorso di dattilografia, si unisce volentieri alla gara di dottrina cattolica: «Come dice il Vangelo, ovviamente secondo Matteo…». Il Bomba è soddisfatto di essersi ripreso la scena, e un po’ anche il partito: «Ho portato il pallone fin qui, cos’altro volete da me?» gigioneggia dietro le quinte. Il punto è che ormai quasi nessuno si fida di lui. Il timore di Zingaretti e pure dei 5 Stelle è che, lasciato fuori dal governo, Renzi possa farlo cadere nel momento più favorevole alle sue ambizioni. «È il nuovo D’Alema» dice di lui una senatrice Pd: tattico impeccabile, dal ribaltone del 1995 alla presa del potere del 1998; poi però arrivano quella grande seccatura che sono le elezioni. Stavolta il voto sembra poter attendere. Dal Quirinale chiariscono che non può essere il presidente a risolvere la crisi, che il suo compito è ascoltare quello che gli diranno i partiti. Ma la convinzione generale auscultata al Senato è che la distanza antropologica tra il cattolico democratico Mattarella e il deejay Matteo del Papeete sia tale che, se potrà dare una spintarella a Salvini portato dai 5 Stelle sull’orlo del burrone, il presidente non potrà e forse non vorrà esimersi.
Gara di catechismo
L’intesa politica tra grillini e dem è lontana e difficile. Più semplice, sussurra Renzi, sarebbe mettere su un bel governo istituzionale con figure gradite a entrambi i fronti, tipo Cantone, Gratteri, Gabrielli, accanto a politici non troppo usurati. Zingaretti non potrebbe certo negare la fiducia; Grillo neppure; e una volta che la Camera avrà votato il taglio dei parlamentari, il nuovo esecutivo avrebbe almeno un anno davanti. Giorgetti fa ascoltare alla portavoce leghista Iva Garibaldi una canzone di Sergio Endrigo nei suoi momenti più malinconici — «Chissà se finirà/ se un nuovo sogno la mia mano prenderà…» — e mostra di non credere troppo al voto anticipato: «Alla fine prevarrà lo spirito di conservazione della specie». È il motto dei peones, i parlamentari di seconda e terza schiera: «Quando ci ricapita?». Eppure le elezioni non sono affatto escluse, e i contorni della nuova stagione restano oscuri. C’è un nome cui sarebbe ancora più difficile dire di no. Ma nessuno osa citare apertamente Draghi. Molto attivo invece Scilipoti: «Dovrebbero fare tutti come me, anteporre l’interesse pubblico a quello personale…». Morra, che in effetti è il presidente della Commissione antimafia, prega per Salvini parafrasando Gesù in croce: «Padre perdonalo perché non sapeva cosa stava facendo». Il gesuita Spadaro, consigliere del Papa, rilancia le parole di Conte sul rosario. Si vede Ghedini, come solo nelle grandi occasioni: Forza Italia è divisa tra chi vorrebbe seguire Salvini e chi è tentato da Renzi. Verdini, di passaggio: «Matteo non è ancora mio genero, e poi mi ascoltavano di più Berlusconi e l’altro Matteo…». Arriva pure Rocco Casalino, freschissimo: «Conte è l’uomo del giorno. Mi sa che lo rivedremo presto». A Palazzo Chigi o a Bruxelles? I compaesani apuli srotolano l’ultimo striscione: «Presidente l’Italia ti ama». Salvini avvisa: ci rivedremo nelle piazze.
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