Il voto in Israele è un referendum su re Bibi. Il generale Gantz in leggero vantaggio

Sui giganteschi manifesti che tappezzano Israele appare con un viso sorridente, rassicurante. Il viso di un “re” che nell’ultimo decennio ha governato senza ostacoli, ininterrottamente, il suo “regno”: Israele. Ma fuori dai manifesti e dalle uscite pubbliche, Benjamin “Bibi” Netanyahu è tutt’altro che un “re” certo dell’ennesima investitura nelle elezioni di domani. I sondaggi danno in lieve vantaggio il partito centrista Kahol Lavan (“Blue and White”) con 32 seggi, seguito dai 31 del Likud. La Joint List dei partiti arabi, la nuova formazione di destra Yamina della ministra della Giustizia Ayelet Shaked e Yisrael Beitenu sono sui 10 seggi. Previsti 7 seggi ciascuno per i partiti ultra-ortodossi Shas e United Torah Judaism e per Campo Democratico di Ehud Barak. I Laburisti non supererebbero i 6, seguiti dal partito di estrema destra “kahanista” Otza Yehudit con 4 seggi.

Il vero problema per Netanyahu, concordano gli analisti a Tel Aviv, sono i fratelli-coltelli alla sua destra: ultranazionalisti, ultraortodossi, tutti indispensabili per provare a formare un nuovo esecutivo, con Netanyahu premier. Su questo fronte, i sondaggi dicono che il premier non è riuscito a cannibalizzare le destre estreme: se il Likud dovesse confermarsi primo partito e a Netanyahu venisse affidato l’incarico di formare il nuovo governo, si riproporrebbe l’incubo di trattative senza fine, fatte di veti e contro veti, di appetiti insaziabili di poltrone e di punti programmatici che farebbero passare anche gli ultimi falchi di Washington come “colombe” di pace, una situazione che ha impedito a Netanyahu di raggiungere la maggioranza di 61 seggi (su 120), il minimo indispensabile per avere la fiducia della Knesset, il Parlamento israeliano.

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