Eni, Enel, servizi segreti e altre 400 poltrone: tutti i nomi in ballo nell’abbuffata delle nomine
Per vincere la partita delle nomine pubbliche i vari candidati dovranno sudare sette camicie. Perché i pretendenti e le ambizioni sono sterminati. E perché a banchetto parteciperanno, oltre ai plenipotenziari di Luigi Di Maio e di Nicola Zingaretti, altri due pezzi da Novanta della Terza Repubblica. Cioè Giuseppe Conte, che da Palazzo Chigi ha già fatto intendere di volere gestire un pacchetto considerevole da intestarsi personalmente. E il redivivo Matteo Renzi, che con il suo nuovo partito Italia Viva farà contare, anche sulla battaglia delle nomine, la golden share sul governo che lui stesso a contribuito a far nascere.
LE PARTITE ENI ED ENEL
Partiamo dalla polpa. Cioè dalle nomine delle grandi utilities dai fatturati miliardari e dal poderoso peso politico e strategico, come Eni, Enel, Leonardo-Finmeccanica e Poste, tutte previste per la primavera del prossimo anno.
Renzi, in un passaggio dell’intervista a Repubblica con cui annunciava l’uscita dal Pd, ha già fatto capire indirettamente che farà le barricate se qualcuno pensa di toccare l’amministratore delegato del colosso elettrico, Francesco Starace.
Il manager è stato nominato a capo dell’Enel proprio dal governo del
rignanese, e riconfermato nel 2017 da quello retto da Gentiloni. Ottimi
rapporti con il Giglio Magico (conosce bene Marco Carrai dai tempi in
cui era ad di Enel Green Power, mentre nel cda siede l’avvocato Alberto
Bianchi, amico di Matteo ed ex presidente della Fondazione Open: con
Salvini era considerato sicuro uscente, con il ribaltone una sua
riconferma nel board è più che probabile, al lordo degli sviluppi
dell’inchiesta della procura di Firenze che l’ha indagato qualche giorno
fa per traffico di influenze), Starace è tra i registi dell’operazione
Open Fiber, e da anni gira allo Stato dividendi monstre.
Non solo: investendo in tempi non sospetti sulle energie rinnovabili,
sembra l’uomo giusto per quel “green new deal” annunciato prima dalla
neonata Commissione europea di Ursula von der Leyden e poi dal premier
Conte nel suo discorso di fiducia alle Camere. Salvo sorprese, il
manager (che ha buone entrature anche con Conte, che sul dossier delle
partecipate chiederà più di un consiglio al suo mentore Guido Alpa)
dovrebbe rimanere inchiodato alla sua poltrona.
«Starace? Lascerà l’Enel solo in caso di una sua promozione all’Eni»,
dicono i ben informati da Palazzo Chigi. I manager del colosso
petrolifero, in effetti, appaiono assai più traballanti dei cugini
dell’elettrico. Claudio Descalzi, pur considerato da
tutti un oilman più che capace, in primavera rischia di scontare gli
scandali che hanno costellato il suo regno, iniziato nel 2014 grazie
all’esecutivo Renzi.
Già imputato per corruzione internazionale dalla Procura di Milano per
alcune presunte tangenti in Nigeria, il manager è finito nella bufera
anche per i denari (oltre 310 milioni di dollari) che il gruppo Eni
ha
girato a una cordata di aziende africane che un’inchiesta dell’Espresso
ha dimostrato essere state costituite, attraverso una società anonima
di Cipro, dalla moglie (di cittadinanza congolese) di Descalzi stesso
.
Non solo. I grillini imputano all’ad di essersi avvicinato troppo a
Salvini, (secondo alcuni anche favorendo l’assunzione di giovani nel
gruppo al fine di evidenziare la bontà del decreto Quota 100, fortemente
voluto dal leghista), mentre gli uomini di Zingaretti non dimenticano
le altre inchieste che hanno inguaiato alcuni fedelissimi su cui
Descalzi cui aveva puntato moltissimo. Come Massimo Mantovani, coinvolto
nell’indagine sui tentati depistaggi dell’indagine milanese portati
avanti dal gruppo di faccendieri capitanati dall’ex legale dell’Eni
Piero Amara.
Il manager e l’azienda hanno sempre respinto ogni addebito e ogni
accusa, compresa qualsiasi partecipazione al Russiagate di Gianluca
Savoini o alle trame di Lotti e Palamara contro il pm Paolo Ielo. Eppure
– al netto dell’esito giudiziario dei procedimenti – una riconferma di
Descalzi, come pure quella del presidente Emma Marcegaglia, sembra in
salita.
Se la promozione di Starace appare un’ipotesi percorribile (per la
poltrona di ad dell’Enel, a quel punto, potrebbe avere qualche chance il
numero uno della multi utility bresciana A2A, Luca Valerio Camerano), altri decisori di peso stanno invece pensando a una soluzione “interna” all’azienda.
Esattamente come accaduto con Descalzi, che fu promosso amministratore
delegato dopo essere stato capo della divisione Exploration &
Production, i cacciatori di teste della maggioranza hanno cerchiato in
rosso i nomi di alcuni profili che vengono dalla “scuola” dell’Eni. In
particolare, quelli di Alessandro Puliti e di Luca Bertelli.
Il primo, geologo con natali fiorentini, è da poco a capo della
fondamentale divisione “Upstream”, ed ha ereditato deleghe importanti un
tempo appannaggio dell’ex braccio destro di Descalzi Roberto Casula,
anche lui imputato per l’affaire nigeriano, e di Antonio Vella, in
uscita per pensionamento.
Pure Bertelli, numero uno dell’Exploration Officier, è nato in Toscana
ed è laureato in geologia. E, come Puliti, ha scalato posizioni in
azienda tenendosi lontano da scandali e polemiche. Ma Bertelli è anche
l’uomo che è stato capace di individuare, grazie all’aiuto del suo team e
di un super-software sviluppato dal colosso petrolifero, alcuni tra i
più grandi giacimenti di gas del mondo scoperti degli ultimi decenni.
Ultimo successo di Bertelli è arrivato nel 2015 quando nello specchio
d’acqua di fronte a Zohr, in Egitto, è spuntato fuori – in un’area
studiata per anni dalle multinazionali rivali – il più grosso giacimento
del Mediterraneo.
«Manager come Starace o come Marco Alverà di Snam, pur bravissimi, di
petrolio non sanno nulla. Meglio continuare con uno dei nostri»,
sostiene chi all’Eni vuole continuità in azienda. Vedremo. Se la scelta
cadesse su un interno, però, è probabile che il presidente sia un
garante della nuova maggioranza politica. E tutti indicano Franco Bernabé,
già all’Eni negli anni ’80 e ’90, come l’uomo che potrebbe tutelare al
meglio sia la nuova cosa renziana Italia Viva (Franco è stato socio di
Carrai), sia il Pd, sia il M5S.
Già: da sempre considerato vicino ai democratici, Bernabé è uno dei
pochi finanzieri a cui Davide Casaleggio chiede consigli spesso e
volentieri. I rapporti tra i due sono di antica data: “Bebè”, come lo
chiamano i nemici, ha conosciuto bene il padre Gianroberto ai tempi in
cui guidava Telecom, e la stima reciproca si è cementata nel tempo.
Ospite di Sum, la kermesse che Davide organizza per ricordare il padre,
Bernabé era addirittura dato qualche settimana fa in pole position come
possibile presidente del Consiglio “terzo”, in caso non si fosse trovata
la quadra su Conte.
LA GRANDE ABBUFFATA
Oltre alle utility dell’energia, la grande abbuffata interesserà altre big di peso. Fabrizio Palermo,
ad della potentissima Cassa depositi e prestiti, non è in scadenza.
Anche se non è amato dal Pd, difficilmente il M5S, suo grande sponsor, a
partire da Stefano Buffagni, ne permetterà un defenestramento. Potrebbe
però restare anche il suo competitor, il presidente Massimo Tononi,
l’uomo delle fondazioni bancarie che qualcuno dava in uscita per gli
scontri continui (in tema di spoil system sulle controllate) con
Palermo.
Tononi spera adesso di poter fare proficuamente sponda con il nuovo
inquilino del Mef, lo zingarettiano Roberto Gualtieri, che da ministro
politico avrà un peso specifico assai maggiore rispetto a quello che
aveva il suo predecessore Giovanni Tria. Presto – giurano dal governo e
dal Pd, dove il deputato Claudio Mancini ha confessato a qualche suo
amico di avere già la fila fuori di lobbisti che vogliono accreditarsi
con il partito – potremmo così assistere alla fumata bianca su Sace. Una
spa di Cdp attiva nell’assicurazione dell’export, i cui vertici sono
scaduti da mesi, e il cui rinnovo (che era voluto da Tria senza se e
senza ma) è stato bloccato per mesi da Palermo, che chiedeva invece un
rinnovamento totale in salsa gialloverde.
A marzo vanno certamente rinnovati i vertici di Leonardo. L’ad Alessandro Profumo
era considerato debole prima del ribaltone, ma non sembra che il cambio
di maggioranza gli gioverà più di tanto. Mentre un nuovo rinnovo del
presidente Gianni De Gennaro, ex poliziotto e nemico
giurato dei grillini, dimostrerebbe in maniera plastica la metamorfosi
del Movimento da partito di lotta a movimento pronto a collaborare con i
poteri forti del Paese. A Fincantieri (che Renzi ha
detto di sognare di “fondere” con Leonardo) rischia invece di continuare
l’epopea di Giuseppe Bono, da ben 17 anni in sella al gigante della
cantieristica che costruisce navi da crociera e militari.
Presidente dell’azienda è (e dovrebbe essere ancora) Giampiero Massolo,
proveniente – come De Gennaro – dagli apparati di sicurezza dello Stato.
Un altro settore che il nuovo governo potrebbe terremotare prima del
previsto.
Al Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, non tutti sono infatti contenti del comando del generale Gennaro Vecchione,
scelto solo un anno fa da Conte in persona. Finito qualche giorno fa
(per fortuna senza conseguenze gravi) con la sua auto di servizio contro
i dissuasori in acciaio che proteggono l’ingresso della nuova sede dei
servizi a Piazza Dante a Roma, l’operato di Vecchione ormai è messo in
discussione anche dal premier, che – è cosa nota – ha mantenuto le
deleghe sulle nostre barbe finte. L’ipotesi più accreditata è quella di
un suo spostamento a Palazzo Chigi in veste di consigliere personale
dell’ex avvocato del popolo, con la conseguente promozione di un interno
(come Bruno Valensise, da poco nominato vicedirettore vicario) a nuovo
numero uno.
Ma c’è un’altra opzione che non dispiacerebbe né a Conte né al Quirinale: lo spostamento del capo dell’Aise Luciano Carta
(generale stimato dall’intero arco costituzionale) al Dis, e il
contestuale avanzamento, come nuovo padrone della nostra sicurezza
esterna, di Giovanni Caravelli. L’uomo che da anni gestisce le deleghe del complicatissimo dossier libico.
All’Aisi, il nostro servizio interno, si lavora invece da tempo al
successore di Mario Parente. Qualcuno dava in vantaggio l’attuale
vicedirettore (ed ex cacciatore di boss casalesi latitanti) Vittorio
Pisani, ma il suicidio politico di Matteo Salvini – che lo stimava molto
– potrebbe indebolire la sua candidatura.
Il ritorno di Renzi come protagonista assoluto della politica nazionale rafforza invece quella di Valerio Blengini:
dato solo qualche settimana fa verso il pensionamento, lo storico
dirigente del servizio potrebbe giocarsi ora più di una fiches per la
poltrona che coronerebbe la sua carriera. Su ogni nomina dei servizi,
come quella degli apparati di sicurezza dello Stato, Polizia in primis, i
partiti e il premier dovranno sempre fare i conti con Sergio Mattarella
e i suoi consiglieri, che intendono esercitare tutta la loro moral
suasion in caso di candidati considerati dal Quirinale non all’altezza
del compito.
Tornando alle partecipate, Invitalia potrebbe essere ancora casa del potente Domenico Arcuri, l’amministratore delegato in scadenza ma molto amato da Giuseppe Conte. Il presidente del Consiglio ha apprezzato anche il modo con cui il manager ha gestito, ad inizio anno, la partita del Contratto istituzionale di sviluppo della Capitanata: grazie al Cipe e all’abilità di Arcuri, per la provincia di Foggia così cara al premier sono arrivati ben 280 milioni di euro, tutti a favore di Comuni e imprese locali.
Anche Matteo Del Fante, ex renziano di ferro convertitosi al salvinismo, sta tentando di convincere il nuovo governo giallorosso a confermarlo ad di Poste spa. Un lavoro di persuasione affidato anche a Giuseppe Lasco, ex Guardia di Finanza che segue come un’ombra Del Fante dai tempi in cui i due erano insieme a Terna: già direttore delle relazioni istituzionali e del personale, Lasco è da qualche mese pure vicedirettore generale del gruppo. Per qualche osservatore malizioso, è lui il vero uomo forte di Poste.
Lust but not least, tra le nomine da sbrogliare con urgenza c’è quella dell’Anac (improbabile che a Raffaele Cantone succeda il numero due della procura di Roma Paolo Ielo, che non sembra disponibile) e quelle dei nuovi vertici del Garante della Privacy e dell’Agcom. Qui, all’authority per le Comunicazioni, si parla con insistenza del piddino Antonello Giacomelli, ma in lizza per la presidenza resta anche Vincenzo Zeno-Zencovich, che tanto piace al centrodestra. Il grillino Emilio Carelli – l’ex direttore di Sky che ha perso la battaglia dei sottosegretari – potrebbe invece sedersi nel board come consigliere. A quel punto, difficile ce la facciano altri due candidati forti della vecchia maggioranza gialloverde. Ossia la dirigente del Mise Laura Ria, che comunque vanta un curriculum più che adeguato, e l’avvocato Tommaso Paparo. Un outsider che ha buoni rapporti con il Movimento, qualche entrature nella Chiesa e pure nella comunità ebraica: siede infatti nel collegio sindacale della Fondazione Museo della Shoah.
La grande abbuffata è solo all’inizio. Ma i piatti in tavola sono così golosi che in tanti scommettono che il Conte bis, nato debole e già terremotato dalla mossa di Renzi, sopravviverà. Almeno finché tutti i territori del risiko delle nomine non saranno stati spartiti tra i nuovi padroni dell’esecutivo.
L’ESPRESSO
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