Matteo Renzi, storia dell’uomo nuovo finito a vivacchiare nella palude

Singolare coincidenza per un leader condannato a ripetere se stesso come una serigrafia di Andy Warhol, ma anche ad apparire sempre nuovo, perennemente in cerca di cambiamento. Con la strada meno battuta, nel 2014, lo scout divenuto cannibale eliminò Letta, oggi rappresenta una minaccia letale per il Pd di Nicola Zingaretti e un’ipoteca sulla sopravvivenza del nuovo governo, il Conte due, appena nato grazie al capovolgimento di fronte spettacolare e cinico del capo della nuova pattuglia parlamentare. Il Renzi capo di un partitino, manovratore delle aule parlamentari, in trattativa per fare il gruppo al Senato con Riccardo Nencini e con Pier Ferdinando Casini, è (almeno) il terzo Matteo visto all’opera in questi anni.

Il primo Matteo, sette anni fa, di questi tempi, il 13 settembre 2012, un giovedì, era un trentasettenne sindaco di Firenze che dava l’assalto al cielo, con la candidatura alle primarie per la premiership contro l’allora potente segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Eravamo in tanti pigiati quella mattina nell’auditorium del palazzo della Gran Guardia in Piazza Bra a Verona: amministratori locali, sindaci, giornalisti. Un solo parlamentare del Pd presente: Andrea Marcucci, l’attuale capogruppo al Senato, renzianissimo ma non ha voluto seguire il suo leader nella nuova avventura, spargendo fiumi di lacrime. L’altro volto più o meno noto era il sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio, che per noi cronisti sospirò una dichiarazione oggi significativa: «Sono venuto ad ascoltare. Per me è fondamentale che la sfida di Matteo si svolga all’interno del Pd».

Il big problem, come l’ha definito oggi Dario Franceschini, Renzi è dentro o fuori?, c’era già allora e infatti Delrio, capogruppo alla Camera, è rimasto nei ranghi Pd e ha da tempo cancellato dal suo display il nome in codice per Renzi: Mosè: Il portavoce del sindaco Marco Agnoletti presentava una ragazza sorridente: «L’avvocato Maria Elena Boschi, guiderà lei i comitati di Matteo».

Il Renzi di Verona non era fuori, ma già oltre il Pd. Oltre la politica italiana dei precedenti venti anni, addirittura: «Se passiamo il compasso da questa parte ci sono i 25 anni che abbiamo vissuto. Noi siamo l’altro raggio del compasso: siamo i prossimi 25 anni, il futuro», scaldava la platea dal palco, in camicia bianca con le maniche arrotolate e la cravatta scura, i colori rosso e blu del logo elettorale, modello Usa, con il punto esclamativo di “Adesso!”. Lanciava una terribile accusa alla classe dirigente dell’ultimo quarto di secolo: «Hanno trasformato il futuro in una discarica». E centrava il bersaglio enorme, spiegando il significato della parola rottamazione. Non solo svecchiare i gruppi dirigenti, c’era qualcosa di molto più grande da rottamare: un’intera generazione di sinistra, la sua cultura, la sua pretesa di dettare modelli di vita, miti e idoli culturali, il sistema delle idee. «Dobbiamo rottamare la generazione del ’68 che dipinge se stessa come l’unica che ha gli ideali, l’unica meglio gioventù che ci sia mai stata. No, ci siamo anche noi». Anche noi, quelli che non c’erano prima. Quelli cresciuti in venti anni di zero rappresentanza politica e di devastazione della speranza. I volti dell’Italia normale che si affiderà negli anni successivi al nuovo leader, un’Italia periferica e un po’ incazzata, un’Italia di giovani outsider, di non iscritti, di non tesserati, di non invitati, di non tutelati, di figli che non contano nulla.

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Cinquecentoventisei giorni dopo, sabato 22 febbraio 2014, il secondo Matteo entrò vestito di blu nel palazzo del Quirinale per giurare da presidente del Consiglio nelle mani di Giorgio Napolitano. In mezzo, c’erano state due elezioni primarie (una persa, l’altra vinta), un paio di edizioni della kermesse della stazione Leopolda, la Mecca del renzismo, il pellegrinaggio obbligatorio per tutti i fedeli, le elezioni politiche del 2013 con il boom di Beppe Grillo e una scalata senza precedenti, se si esclude l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi con Forza Italia nel 1994. I primi tradimenti, le prime promesse non mantenute.

«Se mai capiterà di salire le scale di Palazzo Chigi questo avverrà attraverso la strada maestra della vittoria elettorale, non in altro modo», aveva giurato, e invece eccolo lì, a traslocare alla guida del governo senza il passaggio del voto popolare, con un patto di potere che andava dall’ex berlusconiano Angelino Alfano a Roberto Speranza, allora bersaniano capogruppo del Pd, oggi ministro della Sanità uscito dal Pd e forse sulla via del rientro.

Spettacolare la prima apparizione nell’aula del Senato, all’ora di pranzo del 24 febbraio 2014. Renzi si accomodò al centro dei banchi del governo, il posto riservato al presidente del Consiglio, seduto tra i ministri Angelino Alfano e Federica Mogherini, entrava per la prima volta in un’aula parlamentare. Alle 14.09 gli venne data la parola dal presidente del Senato Pietro Grasso. Si alzò, si abbottonò la giacca, tirò a sé il microfono: «Gentili senatrici, onorevoli senatori, ci avviciniamo a voi in punta di piedi, come chi si rende conto della magnificenza di un luogo simbolo, di essere di fronte a un pezzo di storia…».

Esaurito l’omaggio, però, cambiò subito tono: «Non ho l’età per sedere in Senato, non vorrei cominciare con una citazione colta della pur bravissima Gigliola Cinquetti. Sono qui a chiedere la fiducia con il linguaggio della franchezza, della brutalità. L’Italia è un paese arrugginito, paralizzato. Io vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia in quest’aula!». Ovvero: il primo punto del mio programma è la chiusura del Senato elettivo. Sul quaderno di quella giornata ho un appunto: prime contestazioni, dai banchi della Lega e del Movimento 5 Stelle. Renzi, intanto, aveva preso sicurezza. La mano sinistra nella tasca dei pantaloni, il tono di voce minaccioso, l’avvertimento beffardo: «Mi hanno detto che al Senato non vi divertivate, vi prometto che con me vi divertirete!». E la conclusione: «Noi abbiamo una sola occasione, è questa. E vi diciamo, guardandovi negli occhi, che se dovessimo perdere, non cercheremmo alibi. Deve finire il tempo in cui chi va nei palazzi del potere, poi, tutte le volte trova una scusa. Se perderemo questa sfida, la colpa sarà soltanto mia».

Parole che rilette oggi fanno l’effetto stranito del tempo passato. Un’ossessione, il tempo, per il Matteo di governo, lo statista grande tra i grandi, tra Angela, Barack, David. I cento giorni. I mille giorni. Il cronoprogramma. Il passo dopo passo. Le riforme da far passare entro l’estate, entro Natale, entro la fine del mese. Il tempo perso, che inquietava anche un giovane come lui. «Vorrei cominciare riflettendo con voi sul tempo che scorre inesorabile…», sorprese tutti citando il teologo Dietrich Bonhoeffer di “Resistenza e resa”: «Essendo il tempo il bene più prezioso perché non recuperabile guardandoci indietro ci rende inquieti l’idea del tempo che abbiamo perduto».

Per un po’ gli italiani gli hanno concesso tempo, lo hanno gratificato subito con un (inutile) quaranta per cento alle elezioni europee del 2014, lo hanno eletto a nuovo leader generalista, virtualmente senza confini, come neppure Berlusconi era riuscito a diventare, guida di un indefinito partito della Nazione. Un potere, già allora a ben guardare, di carattere trasformista, ma di un trasformismo particolare. Renzi restava immobile come un domatore di circo e intanto tutto cambiava attorno a lui, fuori i leoni dentro le tigri. Il Patto del Nazareno prima stretto con Silvio Berlusconi e poi stracciato per eleggere Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, il suo capolavoro. Prima Alfano, poi Denis Verdini. E l’Europa prima amica e poi nemica. Tutto era consentito al leader più rapido, più bravo, più spregiudicato di tutti gli altri, capace ad assorbire il conformismo e l’obbedienza al comando tipica di alcuni post-comunisti nel Pd, ad esempio nelle regioni rosse, o l’attitudine al potere dei notabili meridionali.

La corsa del secondo Matteo si è bloccata la sera del 4 dicembre 2016, alla fine di un anno impazzito, dedicato a vincere il referendum sulla nuova Costituzione che avrebbe dovuto trasformare Renzi nel De Gaulle italiano, il capo di una potenziale Repubblica presidenziale. E invece arrivò l’ondata dei No, la crepa tra il Palazzo e la politica che il premier aveva promesso di chiudere si era al contrario allargata. Come nel resto d’Europa, certo, ma in Italia, intanto, l’outsider aveva rotto i rapporti con la società, con i corpi intermedi, perfino con il suo partito, si era rinchiuso a Palazzo Chigi, con una leadership impermeabile, chiusa, «esclusiva, escludente, solitaria», come Romano Prodi definì la campagna per il sì al referendum. Quel che si dice il Paese non si era sentito ascoltato e rappresentato, nella narrazione renziana tutta vincente, era rimasto insensibile perfino alle realizzazioni del governo, si era ribellato alla pretesa di racchiudere in un Sì o in No la complessità dei mali e delle potenzialità italiane. E alla fine in quelle gabbie era finito prigioniero il premier che si era autocondannato a correre sempre e che aveva portato il suo disegno e la sua premiership nel burrone.

«Per me riprende il cammino», avvertì Renzi quella notte. La premessa dell’ultima metamorfosi, quella operata in questi giorni, alla fine della folle estate 2019. Il leader della competizione si trova ora a lucrare su un sistema non competitivo, perché la bandiera del voto e della difesa del sistema maggioritario è passata in mano soltanto a un altro Matteo, Salvini. L’uomo del maggioritario, che aveva approvato la legge elettorale Italicum e sognava il sindaco d’Italia, lascia che si parli di legge elettorale proporzionale, la frammentazione dell’atomo. Il segretario che più di ogni altro capo del Pd ha incarnato la vocazione maggioritaria del suo partito, l’ambizione di guidare il Paese con un proprio esponente, ha condotto per mano il Nazareno ora occupato da Nicola Zingaretti nel bosco e lo ha lasciato alle prese con i lupi e i serpenti del Movimento 5 Stelle. E sulla maggioranza giallorossa che sostiene il Conte 2 ha già anticipato il refrain dei prossimi mesi: slegare il destino del governo da quello della legislatura, l’ultimo tabù. La legislatura è ancora lunga, molti saranno i governi e molte le maggioranze che li sosterranno e Renzi è già pronto a farne parte, qualunque esse siano. A essere proporzionale con M5S, ma anche presidenzialista con l’altro Matteo (Salvini), se le circostanze fossero favorevoli.

L’ex giovane premier si candida perciò a diventare il protagonista della stagione che verrà, avendone intuito prima di tutti la cifra. Il disordine, l’instabilità che diventa premessa di nuovi equilibri, la scossa che sta per sconquassare anche Forza Italia, il senso dell’opportunità come unica bussola in una politica senza altri punti di riferimento. Porta con sé un drappello di affezionatissimi e una moltitudine di delusi. Intanto, come dice il personaggio di Vittorio Gassman in “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, dai baffetti dalemiani, il futuro è già passato e non ce ne siamo accorti. E la palude sembra definitiva.

L’ESPRESSO

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