Renzi e Salvini tra piazze e Leopolda: i Mattei marciano divisi e colpiscono uniti



Da questo punto di vista, il primo a manifestare lo spirito di sincerità che ha animato, si fa per dire, tutto lo scontro televisivo più seguito degli ultimi mesi è stato il conduttore, Bruno Vespa, quando ha detto durante la presentazione che da tredici anni i leader non si confrontavano in tv, ovvero dall’ultimo duello tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi.

Un’astuzia dettata dal marketing, perché in realtà Renzi all’epoca del referendum sulla Costituzione nel 2016 aveva affrontato un gran numero di confronti, a partire da quelli con Gustavo Zagrebelsky e con Ciriaco De Mita negli studi di Enrico Mentana. Ma soprattutto, Renzi e Salvini guidano un partito di opposizione e un partitino di governo, non sono a capo di una coalizione e non sono candidati alla presidenza del Consiglio, come lo erano il Cavaliere e il Professore nel 2006.

In quell’aprile si concludeva una campagna elettorale verbalmente violenta, segnata dalla rimonta berlusconiana, con lo show al meeting di Confindustria a Vicenza e gli insulti contro gli avversari («Non posso pensare che ci siano così tanti coglioni che possano votare contro il loro interesse»), che anticipava la drammatica notte del risultato al fotofinish, con l’Unione vittoriosa per soli 24mila voti.

Di quel faccia a faccia ricordo nella notte, nel cortile della Rai di via Teulada, l’uscita di due personaggioni che non ci sono più, l’amico di Prodi Angelo Rovati che nelle prove del dibattito faceva finta di essere Berlusconi, e il portavoce del Cavaliere Paolo Bonaiuti, appena scomparso, sempre gentile con i giornalisti, anche e soprattuto con quelli percepiti come antipatizzanti. E il colpo di teatro finale del Cavaliere: l’abolizione dell’Ici, la vecchia tassa sulla casa. Era l’Italia del maggioritario: in mezzo, tra centrosinistra e centrodestra, non c’era nulla. Del confronto Renzi-Salvini, invece, resterà ben poco, se non l’aspirazione, l’ambizione dei due protagonisti: superare al più presto l’attuale fase politica, il governo Conte due, la maggioranza giallorossa e tornare a vedersela tra di loro.

I faccia a faccia sono in Italia un atto politico, non un evento comunicativo. Lo fu il primo, nel 1994, tra Silvio Berlusconi e Achille Occhetto negli studi di Canale 5, seguito fino a mezzanotte passata da 9 milioni e seicentomila spettatori, il 61,3 per cento dell’audience. Gli sceneggiatori della fiction di Sky hanno immaginato che una tazza di caffè versata ad arte per ordine di Leonardo Notte-Stefano Accorsi, il machiavellico uomo ombra di Berlusconi, sopra il vestito blu di Occhetto, abbia cambiato il corso della storia. Il segretario del Pds fu costretto a cambiarsi con un orrendo vestito marrone che ne condizionò l’impatto mediatico.

Ma più che la nuova legge elettorale, il Mattarellum, dal nome del presidente della Repubblica che ne fu relatore, più che il difficile disporsi delle coalizioni nei collegi uninominali, i progressisti, il centro, Forza Italia alleata con la Lega al Nord e con Alleanza nazionale al Sud, fu quel confronto televisivo a segnare la nascita del bipolarismo all’italiana. Due leader, due poli, di destra e di sinistra, o di qua o di là. Gli esponenti del centro, Mino Martinazzoli e Mario Segni, protestarono per l’esclusione, invano. E pesò sul flop elettorale della gioiosa macchina da guerra la mancata risposta di Occhetto su chi fosse il candidato premier dei Progressisti: «Io ora non mi candido, ritengo più opportuno valutare nel tavolo progressista una volta che gli elettori avranno scelto chiaramente la maggioranza». Ovvero: la scelta lasciata alla segreterie di partito, mentre Berlusconi parlava già da premier, con buona pace della Costituzione.

Un faccia a faccia televisivo definisce un campo da gioco, un perimetro, le squadre in campo con le loro magliette, le tifoserie, le curve avversarie, così come le piazze. Le riunioni del fine settimana in corso servono allo stesso obiettivo. Renzi è tornato alla stazione Leopolda di Firenze da cui partì nel 2010 il movimento della rottamazione. In dieci edizioni sono cambiati i comprimari e gli ospiti: Pippo Civati, Giorgio Gori, Graziano Delrio, Paolo Gentiloni, ma anche Dario Franceschini si fece vedere nel 2013 a raso di un muro, e Marco Minniti che appena un anno fa, di questi tempi, era designato a essere il candidato renziano per la segreteria del Pd e durò lo spazio di un mattino.

Quest’anno la novità è stata che Renzi non è più nel Pd, la rete dei comitati con un piede dentro e uno fuori è tutta in un altro partito, Italia Viva. Ma c’è da dubitare che sarà questa l’ultima tappa: è un partito provvisorio che serve ad amplificare la precarietà del tutto, il governo Conte, la fragile intesa Pd e M5S già alla prima prova del voto in Umbria tra una settimana, i gruppi parlamentari dei partiti maggiori mai così indecifrabili. Nelle stesse giornate Salvini è tornato in piazza a Roma, come nel 2015, quando operò la svolta sovranista e nazionale in piazza del Popolo. Alla vigilia della manifestazione hanno annunciato la loro presenza i neo-fascisti di Casa Pound, ma la sfida del Capitano leghista è un nuovo cambio di pelle, da estremista di governo a moderato di opposizione, per provare a guidare tutto il centrodestra, con Berlusconi, per non finire ricacciato nel ghetto del lepenismo e dell’irrilevanza. I due Mattei si scambiano ancora una volta le parti. Renzi si traveste da lupo e Salvini da agnello.

Renzi e Salvini oggi mettono la leggerezza e la genericità dei contenuti, affinati dai comunicatori per arrivare al maggior numero di elettori possibili, insieme con la rigida divisione del mondo in buoni e cattivi. I buoni stanno con noi, i cattivi sono quelli che non stanno con noi. Eccellono nella coltivazione delle curve social, chiuse, tetragone, sigillate rispetto a dubbi e interrogativi. Alludono a un sistema di leadership, maggioritario, tendenzialmente presidenziale, all’americana, senza paragoni in Europa dove, nonostante tutto e con l’eccezione della Francia, vige un sistema parlamentare. La convivenza di due modelli, uno parlamentare fondato sulla Costituzione del 1948 e uno comunicato presidenziale con i nomi dei leader sui simboli e l’impronunciabile figura del capo politico inserita nei testi delle leggi elettorali, è stato uno dei più gravi motivi di debolezza dell’eterna transizione italiana.

Oggi di nuovo il sistema è ancora sospeso tra la retorica del cambiamento e la realtà. Lo dimostra l’accidentato inizio del percorso di approvazione della legge di Bilancio, senza slancio e senza visione, in un’Italia che le stime del Fondo monetario internazionale collocano in fondo alla classifica, a crescita zero, in lotta per non retrocedere. Con l’assenza di un blocco sociale di riferimento, come si sarebbe detto un tempo, a parte un qualche appoggio che arriva dalla Cgil e dal pubblico impiego, troppo poco per definire un nuovo ceto medio.  Una cultura politica di valori. Un sistema istituzionale coerente. Così si parla molto di patto con gli italiani, ma il patto non c’è e l’idea del Paese che si governa è vaga.

Tocca, ancora una volta, al partito che più incarna tutte le contraddizioni dell’ultimo quarto di secolo, il Partito democratico, provare a evitare la polverizzazione della politica, la replica del trasformismo e del notabilato, e la costruzione di una coalizione non soltanto politica o elettorale, ma anche sociale e perfino culturale. Impresa quasi impossibile, in assenza di un federatore, che è il contrario del demiurgo, e delle forze sociali disposte a mettersi in gioco e di un sistema elettorale che non sia soltanto la fotografia dei rapporti di forza attuali ma richiami un cambio di comportamento degli elettori, come fu un quarto di secolo fa: dall’irresponsabilità alla responsabilità. Ma è un’impresa necessaria, se si vuole non si vuole restare nell’indefinito presente, che continua a colpire chi nonostante tutto ha scommesso sulle virtù della politica, come quel che resta Partito democratico. O nell’indefinito futuro, spartito tra i due Mattei che marciano divisi e colpiscono uniti.

L’ESPRESSO

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