Luca Sacchi, una vita tra famiglia e palestra. E quei post di solidarietà ai negozianti aggrediti

Per dormire tranquilli e svegliarsi illudendosi, nella normalità mattutina d’un quartiere popolare, l’Appio Latino, assai lontano dalle angosciose periferie della capitale, viali alberati e l’immenso polmone verde della Caffarella, giù in fondo alla strada.

Tranquillità apparente

Poi capita che vita e morte si intreccino nonostante noi, in questa Roma che ci raccontano pacificata ma che è piena di droga, rapine e paure non raccontate più. Dunque si può morire sentendosi vivi come non mai, a 24 anni, uscendo dal pub con la fidanzata al braccio: si può morire ammazzati per proteggerla, davanti a cinquanta testimoni con una birra in mano, nel chiacchiericcio indolente di una serata di questo autunno che a Roma sembra ancora estate ed è così dolce da passeggiare, da farci l’amore. Luca Sacchi è morto così, di morte assurda, vittima di una rapina inverosimile. Come se i due mostri che l’hanno ucciso (mostri con accento romanesco, a scanso di impennate xenofobe) fossero usciti fuori con la loro Smart bianca da uno spazio-tempo diverso dal suo, dove il male comanda — e ci vuole un antropologo delle voragini cittadine come Michel Agier per immaginare posti dove esistiamo in contemporanea senza vederci quasi mai — mentre nei palazzi del centro i politici già si scannano: «Roma è una delle città più sicure d’Europa», dice il premier Conte rimbeccando Salvini e difendendo una Raggi molto sottotiro. Luca fa saltare il tappo di apparente tranquillità di Roma: proprio perché era uno tranquillo, senza fisime, innamorato della sua Anastasiya che ha difeso fino alla fine. Moto e arti marziali le passioni, personal trainer in una palestra di ju jitsu della zona, fisico scolpito: una sicurezza di sé che lo ha indotto a non abbassare la testa, a reagire.

Certo, qui ancora se lo ricordano «lo stupro della Caffarella»: i due fidanzatini aggrediti da due romeni vennero a chiedere aiuto proprio in un bar qui sopra, il Simon Café, ma è roba di dieci anni fa. Certo, su una panchina non lontana da qui, al Tuscolano, hanno da poco fatto secco Diabolik, il capo ultrà intrugliato con mala e fascisti. Ma, appunto, sembra una storia tracimata dal mondo di là, quello dei mostri e della Smart Bianca, possiamo fingere (sbagliando) che non ci riguardi.

Luca Sacchi invece ci riguarda come un figlio. Un figliolo di casa, dicono, che ancora viveva coi genitori e il fratello in una stradina della zona, via Fiorini, dove un vicino si commuove, «era buono come il pane, l’ho visto crescere»: uno che sul profilo Facebook teneva post contro le aggressioni ai commercianti, ai controllori dei bus, rilanciava post di Matteo Salvini sulla sicurezza. È probabile che la sua morte diventi sempre più, nelle prossime ore, materia di scontro nella permanente campagna elettorale italiana; non è da escludere che questa giovane vittima assuma la forza simbolica che ebbe Giovanna Reggiani, la cui morte, per mano del romeno Romulus Mailat, fu propellente nella marcia di Gianni Alemanno sul Campidoglio. Perché questo squarcio tra mondi che l’ha risucchiato riapre domande serie su Roma. Una signora genovese amica della sua famiglia ha anche qualche risposta, davanti al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni: «Vivo qui vicino, a piazza Re di Roma, da vent’anni e questo non è un posto sicuro, ai miei figli dico sempre di non parlare con nessuno, qui non si può essere onesti». Anche Laura, che abita al civico 93 di via Bartoloni, affaccia in pratica sulla scena del delitto e ha sentito «il botto», ha una storia di mille paure da raccontare: «Lo vede quell’albero? Da lì si arrampicano e ci entrano nel palazzo, siamo bersagliati da furti e rapine. Molti non riescono a comprarsi la droga col reddito di cittadinanza», sussurra velenosa: «L’altro pomeriggio in via Urbana, mia figlia è stata afferrata per lo zainetto da un disperato, lei gli ha dato un pugno ed è scappata… sa, è pianista mia figlia, mica è Rambo».

Il racconto che manca

Già, c’è l’altra Roma che acchiappa questa per i piedi, cerca di trascinarla giù, nei luoghi comuni di ghetti come Torpignattara o Tor Bella Monaca, la Roma problematica che ci tramandiamo come un esorcismo (bordi di periferia…). Quella che non raccontiamo, perché ormai viene omessa dalle fonti investigative ai cronisti per non creare «allarme sociale», è una Roma di microcrimini: duecento aggressioni da inizio anno sugli autobus dell’Atac (quelle a cui Luca era così sensibile); una Roma dove aumentano le rapine, in casa, nelle farmacie, nei supermercati, spesso a mano armata. E dove lo spaccio continua a essere centrale su troppe piazze. Di tutto ciò si trova traccia nella relazione annuale del procuratore generale di Corte d’appello ma sempre meno nelle cronache quotidiane. È una Roma nera derubricata a «percezione» e spesso neppure denunciata. Che talvolta si riconcilia con la Roma pacificata, ma solo sui muri e nella fantasia innamorata di qualche writer del quartiere: sei bella come ‘na prigione che brucia… Sarebbe piaciuta anche a Luca per la sua Anastasiya.

CORRIERE.IT

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