Di Maio incontra Grillo. I suoi: «Dimissioni da capo politico? No»
La leadership in bilico
Di
Maio è sotto processo. E lo sa. Sa che ha perso il controllo dei
gruppi. E che i fedelissimi di cui si era circondato, che pensava
fossero yes man, gli si sono rivoltati contro. Sa anche che rischia di
perdere la leadership, visto che il potere assoluto su di lui c’è l’ha
Grillo. Per questo ha chiesto udienza. «Vuole implorare perdono», dice
inclemente un big. Vuole fornire la sua versione, dicono altri. Versione
che ripete ai suoi: «Non ce la faccio più a stare in prima linea così.
Tutti chiedono condivisione, tutti contestano l’uomo solo al comando, ma
poi al momento buono si sfilano tutti. Perché nessuno ci ha messo la
faccia sull’Emilia-Romagna?».
Uno sfogo in piena regola, con tanto
di accuse a un gruppo dirigente che gli scaricherebbe addosso tutte le
responsabilità. Qualcuno, in seguito a un discorso del genere,
penserebbe che Di Maio abbia in animo di mollare il ruolo di capo
politico, o di renderlo collegiale. Ma non ci pensa neanche, assicurano i
suoi. Sta solo provando a resistere alla bufera, che prima o poi, è la
sua scommessa, farà naufragare questo governo e l’alleanza con il Pd,
che giudica innaturale.
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Naufragio e scissione
Non
è un segreto che il rapporto con Alessandro Di Battista si sia
rinvigorito. «Sono tornati in asse, si sentono tutti i giorni. E non è
un segreto che molti pensano a uno scenario che sembra fantascientifico,
ma non lo è. Si sa che Di Maio non è a suo agio a Palazzo Chigi, con i
dem al suo fianco. Ieri, durante un tour siciliano che somiglia da
vicino a una campagna elettorale, ha detto una frase indicativa: «Stando
al governo abbiamo perso il contatto con la gente». Un modo per
ritrovarlo, suggerisce la logica, sarebbe mollare il governo.
La
road map sarebbe questa. Dramma Pd il 26 gennaio in Emilia-Romagna.
Crollo del governo, scioglimento delle Camere e campagna elettorale. Di
Maio resterebbe ancora capo politico (ha un mandato che dura fino a
dieci anni) e magari futuro ministro, mentre Di Battista tornerebbe
frontman da comizio e capo parlamentare. Contestualmente,
riavvicinamento con la Lega di Salvini o, comunque spostamento a destra.
A quel punto, Grillo potrebbe chiamarsi fuori, deluso da dirigenti che,
di recente a Napoli, ha già mandato a quel paese. Una pattuglia dei
big, ineleggibili dopo il secondo mandato nel Movimento, potrebbe
approfittarne per mettere in piedi un vascello pirata, rivendicando di
essere il vero Movimento, «tradito» da Di Maio.
Le manovre in Senato
Fantapolitica, per ora, certo. Ma non lo sono le manovre che in queste ore si svolgono non solo contro Di Maio, ma anche contro Davide Casaleggio. Al Senato, come ha scritto il Sole qualche giorno fa, c’è un gruppo di sedici senatori che sta lavorando a un documento che dà pieni poteri ai voti del gruppo. Nel senso che dichiara le decisioni prese dai senatori prevalenti non solo sulla linea politica di Di Maio, ma anche di Rousseau. Il gruppo si sta ingrossando e minaccia di metterlo ai voti martedì. Sarebbe un colpo definitivo al verticismo tecnocratico di Milano, oltre che a quello politico del capo assoluto. Del resto è noto il fastidio di molti eletti nel versamento obbligatorio per le casse di Rousseau. E nell’uso definito «disinvolto» dello strumento del voto, come è stato il caso dell’Emilia-Romagna e della Calabria.
Facilitatori e Dream Team
La strategia di Di Maio era semplice. Dopo aver resistito per un po’, si era deciso a dare una riverniciata con i «facilitatori» e il «dream team». Lessico angloburocratico per uscire dall’angolo e non sentirsi più dare dell’«uomo solo al comando». Ma la pratica si è rallentata. E ora che si sta arrivando al dunque, ci si è accorti che i «facilitatori», ovvero i responsabili di settore per temi, finiranno per non avere alcun potere. E così risulta che finora si siano pubblicamente candidati solo in due: Agostino Santillo e Andrea Cioffi. Quanto agli Stati Generali, qualcuno vorrebbe mettere al voto tutta la classe dirigente, compreso Di Maio. Un modo per delegittimarlo. E infatti, magicamente, il voto su Rousseau avrebbe dimostrato, nella sua lettura, che gli Stati Generali «non sono poi così urgenti».
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