Tutti gli errori strategici dei 5 Stelle
L’ideologia del M5S, per usare un’espressione coniata da Jean Luc Mélenchon, era più o meno una forma di «degagisme», neologismo preso dagli slogan della prima primavera araba, la rivoluzione dei gelsomini in Tunisia. Viene dal francese «degage», vattene, sparisci, levati di mezzo; o, nella versione nostrana, vaffa… «Buttare fuori» era il suo programma politico, «sortez les sortants», come il movimento poujadista francese degli anni 50 (lo ha notato Yves Mény, studioso del populismo). Ma, come d’incanto, «buttare fuori» è diventato «stare dentro». Tentando di piegare i propri contenuti, incompatibili con il governo di una grande potenza industriale come ancora è l’Italia, all’obiettivo di stare al governo, destra o sinistra, Franza o Spagna, Toninelli o Patuanelli.
Ne sono derivate contorsioni oggettivamente impossibili da digerire per gli stessi militanti. Si può chiedere a poche migliaia di persone che concepiscono la democrazia come una forma di agorà, di autogoverno, nella quale uno vale uno: scusate, per favore dobbiamo momentaneamente sospendere la partecipazione alle elezioni, bisogna che prima ci riuniamo un po’ a riflettere e capire chi siamo, qual è la nostra identità? Non si può. E poiché, come recita la legge di Murphy, quando una cosa può andare storta va storta, è andata storta la votazione su Rousseau, e ora sono guai seri per il Pd e per il governo con il Pd. Perché in Emilia Bonaccini stava già scalando l’Everest, e ora gli hanno tolto la bombola di ossigeno, e chissà se ce la farà più a evitare una disfatta che sommergerebbe come una slavina il Partito democratico.
Inoltre, al cambio di strategia in senso governista non ha però corrisposto la duttilità tattica necessaria. Hanno scelto di accettare i compromessi pur di durare, ma vogliono continuare ad apparire duri e puri. Così compiono errori marchiani. Perché si è sperimentata l’alleanza con il Pd in Umbria, dove la partita era già persa, sapendo che se la si perdeva lì poi non si sarebbe potuta sperimentare in Emilia, dove invece la partita era tutt’altro che persa e politicamente contava molto di più? Perché dopo la sconfitta in Umbria Di Maio ha frettolosamente chiuso la porta a future alleanze regionali con il Pd pur di dare a intendere che non era stata colpa sua? In questo modo non gli è rimasto altro che tentare la strada della desistenza in Emilia, dove una vittoria leghista può costare il governo, finendo con lo scrivere un quesito sulla piattaforma Rousseau che rischia di passare alla storia come il più lungo biglietto di suicidio politico mai concepito. Tutto ciò lasciando da parte le cose serie, tipo l’incredibile storia dello scudo penale per ArcelorMittal, tolto, messo, tolto, che il presidente del Consiglio non può ripristinare perché una frangia dei Cinquestelle non lo vuole e minaccia la crisi.
In questo, e in molti altri modi, il M5S si sta giocando anche l’ultima carta che gli era rimasta dopo il fallimento della diarchia Di Maio-Salvini, e cioè la promozione a vero leader di Giuseppe Conte. Solo un effettivo potere di guida e di indirizzo del primo ministro avrebbe potuto governare anche il caos interno al Movimento, e questo spiega perché Zingaretti, Franceschini e tutto il Pd abbiano abbracciato Conte come dei naufraghi una scialuppa. Ma la metamorfosi di San Giuseppe non è accaduta, o non è ancora accaduta, e chissà se è rimasto il tempo perché accada. Dovrebbe essere chiaro ai Cinquestelle che uscire sconfitti anche al secondo tentativo di governo, prima con la Lega e ora con il Pd, può rappresentare la tomba elettorale del Movimento, e che neanche un cambio in corsa del leader farebbe i miracoli. Ma, a questo punto, c’è da chiedersi se sia davvero chiaro; o se invece un «cupio dissolvi» si sia impadronito dei vincitori delle elezioni, indecisi a tutto, disposti a far pagare il prezzo delle loro contraddizioni al Paese che li ha votati.
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