Governo, un disequilibrio che non si ricompone
È la fotografia di una paralisi, di un disequilibrio che non si ricompone, diventato condizione strutturale, proprio come ai tempi del precedente governo, con Di Maio che gioca a fare Salvini col Pd e il Pd che, per senso di responsabilità, fino a dicembre sceglie di portare la croce, rinunciando (per ora) anche a quei temi che considera dirimenti (vai alla voce: decreti sicurezza e ius culturae). Scorrete l’elenco, diventato oggi piuttosto sostanzioso: la Rai, la prescrizione, l’annuncio (dopo l’Emilia) della corsa solitaria dei Cinque stelle anche in Calabria, le concessioni autostradali, la riforma del fondo “salva stati”, la commissione d’inchiesta sul finanziamento a partiti e fondazioni. Anche la spaccatura del Movimento nel voto su Ursula, lì dove a luglio di fatto il governo era nato. Non c’è un solo dossier, uno solo, su cui il governo riesce, senza fatica, ad esprimere una posizione comune. La crisi dei Cinque stelle ha contagiato il governo e inchiodato il Pd all’attesa che lo psicodramma di una nomenklatura in dissoluzione si risolva in un modo o nell’altro: il famoso dibattito sul “se prevale la linea Grillo o Di Maio”.
Aspettando Grillo, ci sarebbe da ironizzare sulle “comiche finali”, come ai tempi del precedente governo, è tornata la domanda del giorno, il “quanto dura”. Nicola Fratoianni, senza ipocrisia, la mette così: “Se si va al voto adesso perdiamo. Ma io preferisco perdere nel 2023 dopo aver eletto un capo dello Stato democratico, che magari qualche osservazione la farà, quando Salvini varerà un decreto sicurezza ter, peggio di quelli che ha già fatto. Su questo sono togliattiano”. Non è solo una voce fuori dal coro. È ormai opinione diffusa che l’argine, nato per arginare il salvinismo, si sia rotto e che questo nuovo inizio mai nato sia l’ultima tappa di una crisi che, inevitabilmente certificherà una svolta a destra. Il problema, non banale, è arrivarci al 2023, avendo questo come unico collante.
Il punto però è che il governo delle non risposte politiche poggia su una non risposta ontologica, esistenziale. Parlando con alcuni parlamentari il vicesegretario del Pd Andrea Orlando, la vede così: “Siamo in una situazione magmatica. Può durare 15 giorni come tre anni. È chiaro che Di Maio si è messo l’elmetto e, come può, gioca a destabilizzare”. Poi si allontana e va a fare una dichiarazione per spiegare all’alleato che chiedere una commissione d’inchiesta proprio nel momento in cui la magistratura ha avviato un’indagine, con la pretesa di sostituirsi alla magistratura, è piuttosto grave. Il problema è questo, non Renzi, che da oggi è azzoppato e avrà tutto l’interesse che la legislatura prosegua. Alfredo D’Attorre, ex parlamentare, commenta così: “È la nemesi. Voleva fare il Ghino di tacco che teneva sotto scacco la maggioranza e adesso viene travolto sul finanziamento illecito…”. Il vicesegretario del Pd, accanto, annuisce.
Questa è l’unica consolazione: l’operazione scissione è franata, nel consenso mai decollato del partitino di Renzi e in un’inchiesta che ne stronca sul nascere ogni velleità di protagonismo. Ecco Giorgetti, uno che di equilibri instabili se ne intende: “Ma dai… Neanche la cosa smuove niente. In altri i tempi i Cinque stelle lo avrebbero preso a pedate. Ora fanno un po’ di scena ma ci restano al governo. È tutta tattica, tutto… Di Maio non vuole andare a votare. E intanto fuori la casa brucia, del paese non frega un piffero a nessuno. Aspettiamo la relazione di Barr, solo uno shock può liberarci”. A proposito, dell’unico tema su cui si dovrebbe parlare, la legge elettorale per impedire che, in caso di voto Salvini non prenda i famosi pieni poteri, è l’unico espunto dall’agenda. Perché, al tempo stesso, rappresenta un rischio nella misura in cui nessun Parlamento sopravvive all’approvazione di una nuova legge elettorale. Tanto per non mettere in discussione la paralisi.
L’HUFFPOST
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