Un tentativo scientifico di destabilizzazione
Al tavolo Graziano e Oddati offrono tre punti, fatti apposta per favorire il processo: un programma di rinnovamento, liste di discontinuità rispetto alla gestione Oliverio e pieno sostegno a un candidato civico gradito ai Cinque stelle. Graziano la mette proprio così: “Per noi il migliore è Callipo, che era anche quello che volevate voi, perché ha un grande valore aggiunto in termini elettorali, ma non ostacoleremo neanche l’altro da voi indicato, Aiello, se questo agevola”. C’è una stretta di mano di massima. La mattina dopo però arriva la dichiarazione che non ti aspetti. Dopo una riunione con i parlamentari calabresi Luigi Di Maio fa saltare anche questo accordo: “Qui non è replicabile nessun modello Umbria. Andiamo da soli con Ajello”. Game over, certificato dalla nota di oggi dei due titolari della trattativa per il Pd: “In Calabria c’erano le condizioni per il rinnovamento, i Cinque stelle scelgono il ritorno al passato”.
Altra telefonata, nella mattinata di ieri, di Dario Franceschini: “Sulla Rai è andato all’aria l’accordo”. È stato proprio Franceschini che, alle due di notte, ha ricevuto un sms da Vincenzo Spadafora, colui che ha condotto la trattativa per i Cinque stelle: “Di Maio mette il veto su Orfeo al tg3. È saltato tutto”. C’è anche dell’altro, oltre al veto sulla casella del tg3: un insieme di richieste che sbilanciano l’assetto complessivo, risultando indigeribili per il Pd. Il risultato è che, per ora, resta la Rai gialloverde, con Salini che assume l’interim della casella che fu di Freccero, in attesa che si capisca se Di Maio è disposto a trattare, o meno. E in che termini.
Aggiungete, per completare il quadro, che l’ultimo incontro tra il segretario del Pd e Luigi Di Maio risale alla cena prima delle elezioni umbre. Da allora giusto qualche messaggio sul telefonino, formali, senza grandi confidenze e complicità politica. Non un rapporto normale tra leader alleati. In compenso i consiglieri regionali del Movimento in Emilia, così come parecchi in Campania e in altre regioni, hanno fatto sapere al Nazareno che, fosse per loro, l’alleanza si farebbe in un minuto: “È Di Maio che non vuole. Così è inevitabile che prima o poi ci spaccheremo”. Nei panni del segretario del Pd, qualche sospetto vi verrebbe sulle reali intenzioni del capo politico dei Cinque stelle. Sospetti che rischiano di diventare certezze se tutti gli elementi rivelano una certa sistematicità nell’azione. È così che viene letto il quadro, come “un tentativo scientifico di destabilizzazione”: Emilia, Calabria, Rai, prescrizione, fondo salva stati, eccetera eccetera. Tentativo diventato ancora più scientifico dopo il tentativo di commissariamento da parte di Beppe Grillo, la cui immagine introiettata al Nazareno cozza forse col suo potere dentro il Movimento.
Insomma, diciamola senza girarci attorno: il retro-pensiero che il capo dei Cinque stelle voglia, prima o poi, tornare al voto con Salvini, non è così azzardato. E che su questo sia maturato un asse con Di Battista. Ecco, è questa la spiegazione che si sono dati in parecchi al Nazareno, la famosa “analisi di fondo”, come amano dire da quelle parti: è giovane, ha il problema dei due mandati, mette in conto, se capisce di non avere futuro lì dentro, anche di fare una costola populista che si allea con Salvini, se non riuscirà a rimanere capo del Movimento. In una prospettiva del genere il suo posto al governo è assicurato. Populismo che si riunisce a populismo, ontologicamente avverso a una evoluzione nell’ambito di un “nuovo centrosinistra”. Di prove d’amore Di Maio ne sta dando a sufficienza: tiene la Rai che piace a Matteo, lo aiuta a far perdere il Pd nella sua battaglia per la vita, contribuisce a rendere più fragile il governo, diversamente da Conte non attacca mai Salvini, ma non perde occasione per distinguersi dai propri alleati. Ai leghisti non sfugge tanta buona volontà. Giorgetti, in privato, lo dice spesso: “C’è una sudditanza psicologica di Di Maio a Salvini”.
La tesi condivisa anche da parecchi dentro i Cinque stelle. Sono gli stessi però che aggiungono: “Se volesse strappare, adesso non avrebbe i numeri perché non controlla più i gruppi”. Adesso, però il punto è il processo politico innescato da questa testarda opera di resistenza. È per questo che al Nazareno si parla di “voto a marzo”, non come auspicio ma come eventualità che rischia di essere nelle cose, perché se dissemini il terreno di mine, prima o poi qualcosa scoppia. La domanda è: che succede se Bonaccini perde di tre punti e il Movimento in Emilia prende il 4 per cento? È ragionevole pensare, nei panni del segretario del Pd, che fino al 26 gennaio non succederà niente, se “niente” si può definire un governo paralizzato, un percorso accidentato sulla manovra, un’incertezza sulla vicenda del fondo salva-stati, che riguarda, in definitiva, il rapporto del governo con l’Europa. Dopo, in base a come andrà, è difficile fare previsioni. È la nuova dead line della politica italiana. Ad oggi c’è che i due partiti che governano assieme si presentano agli elettori da avversari. E il governo, come evidente, già non è al riparo dalla fisiologica conflittualità che questo determina.
L’HUFFPOST
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