Non solo dazi, sulla Cina incombe l’ombra del maxi debito
La Cina mette al bando a pc e software dagli uffici pubblici. Borse piatte in attesa di sviluppi sui dazi
di RAFFAELE RICCIARDI
I rischi finanziari in questo momento non si concentrano tanto a livello
centrale, di debito pubblico, quanto alla periferia dell’Impero.
Secondo un recente rapporto della Banca del popolo, dei 4.400 prestatori
attivi in Cina, 586 sono classificati ad “alto rischio”. Si tratta
soprattutto di piccoli operatori locali, distributori di contanti che
alimentano i sogni di espansione delle aziende e le ambizioni di
carriera dei funzionari provinciali. Negli ultimi mesi il governo è
dovuto intervenire per nazionalizzare Baoshang bank, semi sconosciuto
istituto della Mongolia Interna, poi ha coordinato un salvataggio di
altri due operatori, Jinzhou e Hengfeng. A inizio novembre i correntisti
di due banche, una dello Henan e una del Liaoning, si sono precipitati
agli sportelli per prelevare i loro risparmi, dopo aver sentito di
indagini che riguardavano i manager. Solo l’intervento delle autorità ha
impedito il collasso, ma in un Paese privo di trasparenza e revisori
indipendenti i dubbi sulle reali condizioni delle banchette di provincia
restano enormi.
La autorità hanno annunciato che costringeranno gli istituti in difficoltà a puntellarsi, ricapitalizzando, fondendosi e tagliando i crediti deteriorati. È un intervento coerente con l’imperativo della stabilità, in questo caso finanziaria, messo in primo piano da Xi Jinping. Solo che la stretta sul credito voluta dal presidente cinese è anche uno dei fattori, se non il principale, alla base del rallentamento dell’economia. Molte aziende, soprattutto quelle private, senza sponde politiche, faticano a finanziarsi o rifinanziarsi (il loro debito complessivo è al 165% del Pil), proprio mentre i profitti si riducono. Il numero dei default cresce: a inizio dicembre hanno raggiunto i 17 miliardi di dollari, superando il totale del 2018. E tra le imprese che non riescono più a onorare i debiti alcune sono di Stato: mercoledì scorso il gruppo Tewoo, specializzato nel trading delle commodities, ha annunciato che non potrà ripagare un bond da 300 milioni di dollari, proponendo ai sottoscrittori una conversione in perdita, quello che in termini tecnici si chiama “haircut”.
È una clamorosa prima volta per un’azienda di Stato, status che fino a oggi offriva la garanzia, implicita ma non per questo meno reale, di un salvagente anti crisi. Ora il messaggio del governo sembra essere diverso: non tutti potranno essere sostenuti. In teoria è un segno di maturità del sistema, in pratica rischia di trasformarsi in un terremoto, considerato che nell’economia cinese il rischio creditizio non è mai stato davvero prezzato dal mercato.
Per Xi e i suoi consiglieri economici dunque i prossimi mesi si annunciano un complicato gioco di equilibrismo tra contenimento del debito e stimolo alla crescita. Da condurre con aggiustamenti quotidiani e cercando di evitare contraddizioni, per quanto possibile. Nei giorni scorsi il governo ha ordinato alle province di procedere all’emissione di bond per finanziare le infrastrutture, anticipando le quote previste per i primi mesi del prossimo anno. Nuovo debito per evitare una frenata troppo brusca, ma nuovo debito che sarà sempre più difficile onorare in un’economia dalla produttività stagnante. Con il rinoceronte grigio prima o poi Pechino dovrà fare i conti.
REP.IT
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