Ora inizia la fase chiave di questa legislatura



«Per noi è una giornata che passerà alla storia», il giorno che il ministro degli Esteri Di Maio si è dimesso da capo politico del Movimento. L’abito scuro, la cravatta bordeaux slegata dal collo alla fine dell’intervento come una liberazione finale, il lungo sfogo di un virgulto potente ora in dismissione: «Ho portato a termine il mio compito, oggi si chiude un’era». Il rancore contro i traditori. La citazione a sproposito di Aldo Moro, bisognerebbe tutelarlo dalle appropriazioni indebite, dai furti di idee, dai falsari della politica. La furbizia di andarsene prima del crollo, per farsi poi pregare di tornare.

In quella stessa sala, più di dieci anni fa, nel 2009, lasciò la segreteria del Pd Walter Veltroni, un altro sogno finito. Anche in quel caso c’entravano le elezioni regionali. In Sardegna il super-favorito presidente uscente Renato Soru, editore dell’Unità e candidato a diventare il nuovo Prodi, era stato stracciato dall’ignoto candidato berlusconiano Ugo Cappellacci. E la leadership nazionale non aveva retto l’urto. Ma Veltroni, almeno, si era dimesso dopo una sconfitta elettorale. Mentre Di Maio se ne è andato prima ancora che si aprisse una sola sezione in Emilia- Romagna e in Calabria, in uno stato di psicodramma e di mistero. E dire che l’addio di Di Maio è stato preceduto da un video-spot che sottolineava la diversità del Movimento dai partiti: «Nel Movimento 5 Stelle scelgono gli iscritti e non la direzione. Valgono le persone e le idee, non le etichette e le poltrone». Non era vero, su etichette e poltrone il Movimento è crollato.

Le dimissioni di Di Maio hanno seguito di qualche giorno un altro clamoroso annuncio, la decisione di Nicola Zingaretti di proporre un cambio radicale del Pd, un’altra svolta: cambio di nome, cambio di organizzazione, da votare in un nuovo congresso, a neppure un anno da quello che ha eletto il presidente della Regione Lazio segretario del Pd e, ancora una volta, prima del voto emiliano-romagnolo e calabrese.

I due partiti principali che appoggiano il governo Conte due hanno aperto una crisi della loro leadership prima del voto, a prescindere dal voto. E non perché non fosse importante, decisiva, cruciale la consultazione regionale del 26 gennaio, come abbiamo ripetuto per mesi. Ma perché, al termine di questo primo mese del nuovo decennio, il sistema è già cambiato. Il governo Conte era nato ad agosto per impedire a Matteo Salvini di trascinare il Paese a elezioni anticipate, ma anche nelle intenzioni dei capi per blindare i partiti che si intestavano l’operazione spericolata e spregiudicata. E già in estate era evidente che le elezioni regionali in Umbria, Emilia Romagna e Calabria sarebbero state decisive. In questi mesi è successo il contrario: il Pd ha subito perso un pezzo, con la scissione di Matteo Renzi e di Italia Viva, il Movimento 5 Stelle si è dissanguato nel suo gruppo parlamentare.

La rivoluzione grillina si sfarina, si discioglie, senza uno schianto, con una dispersione immotivata, di cui non si ricordano precedenti. Il nuovo Pd di Zingaretti non è mai partito. Da mesi la presidenza del partito è vacante, con Paolo Gentiloni in Europa, e la segreteria non è mai stata completata, dopo l’ingresso nel governo da ministri di alcuni suoi ex componenti. E al centro e in periferia aumenta un disagio che il ritorno in maggioranza e la battaglia campale in Emilia voto su voto non sono bastati a consolare. Le sardine hanno fatto il resto: senza mezzi alle spalle, con una buona dose di improvvisazione, hanno rappresentato quel popolo che i partiti del centro-sinistra, e il Pd in particolare, da tempo non riescono a raggiungere.

«Leggo un discorso che ho cominciato a scrivere un mese fa», ha detto Di Maio al momento dell’abbandono. Le elezioni del 26 gennaio hanno prodotto il loro primo effetto senza che neppure si fosse votato. La fine del progetto che ha condizionato la politica italiana negli ultimi sei-sette anni, dal 2013 in poi. Il Movimento 5 Stelle, come lo abbiamo conosciuto in questa stagione, non esiste più. È fallita l’idea di riscrivere un sistema politico che ruotasse attorno a un nuovo sole immobile, il movimentone né di destra né di sinistra, perché negli ultimi due anni, come scrive lo storico Giovanni Orsina, si è costruito un nuovo bipolarismo, pro o contro Matteo Salvini, pro o contro la Lega sovranista e nazionalista. In coerenza con quanto sta avvenendo in tutto l’Occidente: negli Stati Uniti dove comincia la sfida elettorale dei Democratici contro Donald Trump, ma anche in Europa.

La destra in questi anni si è ristrutturata, si è data una nuova feroce ideologia, quella messa in scena dall’orrenda performance a favore di telecamere di Salvini davanti al citofono di un cittadino di origine tunisina messo alla gogna come spacciatore. La destra si è riorganizzata, tutta la campagna elettorale dell’ex ministro dell’Interno in Emilia-Romagna è stata dedicata a due obiettivi, la vittoria di Lucia Borgonzoni su Stefano Bonaccini, ma anche il consolidarsi del suo partito, la LS, la Lega Salvini. Un partito sotto il Po (sopra il Po è tutta un’altra storia), in grado di prendere il trenta per cento, tutto in mano al Capitano. La destra italiana prova a mettersi sulla scia della destra mondiale trumpista, dopo aver occhieggiato in modo interessato alla Russia di Vladimir Putin. La sinistra, l’altro polo, non riesce a ricostruire il suo dizionario dei valori ed è indecisa sulla sua organizzazione. È un terreno di conquista per chiunque. È un’assenza più che una presenza, nella giunta del Senato dove si votava sul destino di Salvini sulla richiesta di autorizzazione a procedere per il blocco della nave Gregoretti, e a Bibbiano, dove sono accorse le sardine «perché qui non era venuto nessuno». Eppure, proprio dall’Emilia-Romagna individuata come il teatro ideale della catastrofe annunciata, è arrivato qualche segnale di speranza.

Il nuovo bipolarismo è appena all’inizio. Dopo il voto in Emilia-Romagna e in Calabria arriverà il momento delle scelte. Il proseguimento del governo Conte due, traballante in ogni caso. Il destino della legislatura che entra nella fase chiave, nel momento horribilis di ogni fase repubblicana, i due anni che precedono l’elezione del nuovo inquilino del Quirinale, che coincidono spesso con grandi sommovimenti. Fu così tra il 1990 e il 1992, quando Francesco Cossiga cominciò a picconare il sistema dei partiti di cui era stato illustre esponente. È stato così tra il 2011 e il 2013, quando precipitò il centro-destra di Silvio Berlusconi che sembrava invincibile e toccò a Giorgio Napolitano traghettare il Paese verso il governo tecnico di Mario Monti. Momenti drammatici, con colpi di scena e soluzioni a sorpresa, come fu l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro o la rielezione (per la prima volta nella storia) di Giorgio Napolitano nel 2013, in un Parlamento attonito, ferito dai 101 franchi tiratori che avevano eliminato Romano Prodi dalla corsa, preso a ceffoni dal nuovo-vecchio presidente visibilmente indignato per l’impasse del sistema e la paralisi sulle riforme.

Il mandato di Sergio Mattarella non è stato finora meno tormentato, nella bufera politica il Paese ha trovato al Quirinale un arbitro discreto, saggio e inflessibile, il motore di riserva quando le istituzioni si inceppano. In questi cinque anni, grazie a Mattarella, il prestigio e l’autorevolezza dell’istituzione presidenza della Repubblica è aumentato, agli occhi dei cittadini. E anche il potere del Capo dello Stato, la sua capacità di rappresentare il Paese all’estero. Non confondiamoci con dettagli inutili, la gara per la successione è già cominciata, condiziona le mosse di tutti gli attori politici, da Matteo Salvini a Matteo Renzi, dal premier Giuseppe Conte ai due leader della maggioranza che si sottoporranno nei prossimi mesi al congresso e agli Stati generali dei loro partiti, Zingaretti e Di Maio. È la posta in gioco finale di una crisi che è appena cominciata.

L’ESPRESSO

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