“Sullo smart working l’Italia è molto indietro, ma questa crisi può diventare un’opportunità”. Parla Giampietro Castano
“In questi giorni stiamo vivendo una situazione difficile, che in prospettiva, però, può trasformarsi in un’occasione di avanzamento sociale ed economico. Io credo che se il governo si impegnasse con le giuste risorse, questa crisi potrebbe fornire la spinta per realizzare cambiamenti importanti nelle modalità del lavoro, apportando miglioramenti alla vita dei lavoratori e opportunità per incrementare la produttività delle aziende”.
A rispondere così è Giampiero Castano, uno dei più grandi esperti in Italia di relazioni industriali e sociali, appassionato studioso di sociologia del lavoro. Nella sua lunga carriera, Castano, 70 anni, ha avuto modo di osservare il mondo del lavoro da tutte le possibili visuali: dopo essere stato dirigente sindacale (segretario nazionale della Fiom-Cgil), è stato poi direttore delle risorse umane di importanti aziende come Olivetti ed Engineering, e infine negli ultimi 11 anni ha guidato la speciale task force del ministero dello Sviluppo economico sulle crisi aziendali: fra il 2015 e il 2019 la task force ha gestito oltre 160 crisi aziendali per un totale di 617mila lavoratori. Uscito dal ministero dello Sviluppo economico, oggi Castano è consulente dello studio legale Gop (Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners) in tema di operazioni straordinarie e crisi di impresa.
Oramai si è visto che sono tante le attività che possono essere fatte da remoto, basta guardare quello che succede fuori dall’Italia. Perché da noi c’è questo ritardo?
“Intanto bisogna intendersi sul concetto di smart working, che non va confuso con il semplice lavoro da casa, ma presuppone un’organizzazione che permetta di lavorare da remoto con flessibilità di impegno e orari, con strumenti adeguati, in condizioni scelte dal lavoratore. Ora è evidente che per potere diffondere con successo questa diversa modalità di lavoro serve un cambiamento del paradigma culturale delle figure apicali in azienda, insomma delle persone chiamate a gestire gli smart workers”.
Per ottenere quali vantaggi?
“Esistono svariati studi che evidenziano la possibilità per le aziende di ridurre i costi e migliorare la produttività, a partire dal fatto banale che gli uffici possono occupare superfici più piccole. Per i lavoratori c’è la possibilità di conciliare meglio il lavoro con le esigenze della vita privata e della famiglia. Per la società e l’ambiente i vantaggi sono la riduzione di traffico sulle strade e meno affollamento sui mezzi pubblici…”
Cosa serve per realizzare il cambiamento?
“Servono risorse. Risorse per investimenti in sistemi e piattaforme informatiche, ma soprattutto risorse per la formazione di manager e quadri, perché la cosa più difficile non è l’upgrading tecnologico, ma cambiare la mentalità di quella parte del management che ancora deve superare la cultura della presenza”.
Oggi lo smart working è praticato in Italia da una piccola percentuale di lavoratori, dipendenti di grandi aziende o di multinazionali. Tanto per fare qualche nome, in questi giorni lavorano da casa tutti i dipendenti della Roche di Monza, della Nokia di Vimercate, della Novartis di Varese, così come i dipendenti delle grandi società di consulenza come Accenture, Deloitte e Pwc. Lei pensa che lo smart working possa trovare applicazione anche nelle PMI, spina dorsale dell’economia italiana?
“Certamente sì, non vedo nessuna contrarietà legata alle dimensioni. Non stiamo parlando dell’aziendina con otto-dieci dipendenti, ma di imprese con 100 o 200 lavoratori, e la mia esperienza è che quando si incomincia a ragionare sui numeri e si vede che può esserci un risparmio, l’imprenditore è il primo a dire: dai, facciamolo”.
Nelle innumerevoli crisi aziendali che ha affrontato al ministero dello Sviluppo economico, siete mai finiti a ipotizzare l’utilizzo dello smart working?
“Poco. Lì lo sforzo è soprattutto quello di capire come salvare le aziende. Però ricordo che in alcune situazioni il tema è saltato fuori. L’utilizzo dello smart working si è rivelato utile soprattutto nei casi di spostamento della sede aziendale da un comune all’altro, quando ai lavoratori viene prospettata l’alternativa trasferimento o licenziamento. Per esempio, è stato adottato da Sky quando ha trasferito tutte le attività di Roma a Milano: l’azienda ha accettato che alcuni giornalisti continuassero a lavorare in remoto da Roma, ma non c’è stato verso di fare passare lo stesso principio per i dipendenti non giornalisti”.
Lei prima ha parlato di risorse messe a disposizione dal governo, ha in mente qualcosa di preciso?
“Sì, penso a qualcosa tipo Industria 4.0. Nei provvedimenti che l’esecutivo sta mettendo a punto in queste ore per dare sostegno all’economia frenata dal Coronavirus, potrebbero esserci incentivi ad hoc per le aziende che introducono lo smart working, soldi per le tecnologie e soldi per la formazione”.
Di quanti soldi c’è bisogno?
“Tanti, davvero tanti, ma credo che si potrebbe iniziare con un fondo di qualche centinaio di milioni di euro, 200 o 300, sarebbe già un bel segnale”.
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