L’Olanda in crisi d’identità è il nuovo nemico numero uno


Mark Rutte
Mark Rutte

Nonostante sia un piccolo Paese, l’Olanda ha per 400 anni gestito un impero commerciale, prima con la Compagnia olandese delle Indie Orientali e poi con le sue imprese multinazionali, come Shell e Unilever, che dalla globalizzazione hanno tratto massimo vantaggio. «Da sempre esportiamo venditori e predicatori», continua Lauden: «Facciamo alla gente la morale su come vivere e poi vendiamo loro qualcosa».

Oggi quell’impero non esiste più e, come per la Gran Bretagna, il passaggio dall’io al noi europeo, dalla visione finanziaria e legalista della società a quella politica non è facile, né per tutti desiderabile.

Non a caso il Paese è stato uno dei primi in Europa a trovarsi a fare i conti fin dall’inizio del millennio con partiti di estrema destra, ora euroscettici, ora anti migranti che hanno preso però a invocare sovranismo e esterofobia. «Quando il primo ministro Rutte accetta le parole dell’esponente di un alleato di governo come Hoeksta lo fa perché non vuole esporre il fianco agli attacchi di chi lo giudica troppo europeista in vista delle elezioni del 2021», spiega l’editorialista Tom Jan Meeus. Rutte, in Europa considerato un falco, a casa sua è visto come una colomba devota a Bruxelles.

«Siamo cresciuti a pane e Gran Bretagna», continua Jan Meeus, «credendo fermamente nelle libertà individuali e nel rispetto dei patti economici come base di qualsiasi commercio».

Il rapporto con un Sud Europa in cui il successo individuale non combacia con quello economico e in cui si parla più al cuore che al cervello o al portafogli, come ha dimostrato il premier Giuseppe Conte nei suoi recenti appelli internazionali, non è semplice. Tanto più in un contesto, quello dell’Unione, in cui la storia ha dimostrato che le dimensioni e l’influenza di un Paese in Europa contano più di qualsiasi trattato siglato, a partire da quello del 1992 a Maastricht che, fin da subito, venne infranto da Francia e Germania con lo sforamento del deficit, e che non prevede l’aiuto finanziario a Stati membri in difficoltà. «Per noi che siamo piccoli il rispetto rigoroso delle regole e dei trattati non è una scelta, è una questione di sopravvivenza», dicono fonti diplomatiche olandesi: «Non possiamo cedere sovranità o mettere a disposizione maggiori risorse se non abbiamo garanzie che tutti facciano la loro parte e che qualcuno non ne approfitti». Sono molti gli economisti a ricordare come l’Olanda sia riuscita a ridurre tra il 2013 e il 2018 il suo debito pubblico (cresciuto durante la crisi finanziaria) dal 70 al 52 per cento del Pil con misure drastiche che hanno aumentato le tasse e tagliato la spesa pubblica.

Da qui la diffidenza verso i paesi meridionali che non riescono a tenere sotto controllo deficit e debito e, nel caso dell’Italia, a trovare una formula per far ripartire un’economia in perenne affanno. E cresce il dubbio che questa crisi possa diventare una scusa per introdurre – aldilà dell’emergenza contingente – una mutualizzazione del debito pubblico nel lungo periodo senza avere prima stabilito regole chiare e vincolanti per tutti. Insomma, il timore è quello di una mossa politica da parte dei Paesi finanziariamente più deboli spacciata per solidarietà umana. «La solidarietà e i buoni accordi devono andare mano nella mano», ribadisce da Roma l’ambasciatore olandese Joost Flamand, spiegando la contrarietà di Amsterdam agli Eurobonds: «Si può essere solidali ma anche chiari sulle prospettive future post emergenza, per le quali bisognerà fare degli accordi specifici».

La coscienza economica dell’Olanda però risponde alla politica con forza, avendo ben compreso le conseguenze future per il mercato unico in mancanza di una risposta coraggiosa. «Se non riusciremo a sentirci uniti in un momento come questo allora non lo saremo mai e metteremo in pericolo non solo il futuro ma anche il presente dell’Europa», dice Arnaud Boot, l’economista olandese salito all’onore delle cronache qualche giorno fa quando, nel giro di 24 ore dalle esternazioni poco felici di Hoekstra, convinse i maggiori economisti del Paese a scrivere una dura lettera di critica al governo. «Per questo credo che non solo vadano sfruttati tutti gli strumenti economici che le istituzioni europee offrono ma anche nuovi strumenti di emergenza».

È anche nell’interesse olandese fare in modo che l’Europa non scoppi. Soprattutto adesso che, con l’uscita della Gran Bretagna, suo partner naturale e portavoce di posizioni comuni, Amsterdam ha la possibilità di assumere un ruolo maggiore. «In realtà vogliamo imparare a difendere da soli il nostro punto di vista», dice una fonte diplomatica a Bruxelles.

Eppure il desiderio di riprendere parte di quell’antico potere diluito all’interno dell’Unione, adesso che la globalizzazione ha dimostrato i suoi limiti, cova da anni. D’altronde tante multinazionali con quartier generale e uffici in Gran Bretagna hanno già fatto parziale trasloco nella terra dei tulipani, dove l’inglese è una seconda lingua diffusissima in qualsiasi fascia d’età e dove le università vedono da dieci anni raddoppiare il numero degli studenti stranieri. Ma non esiste potere senza responsabilità e compromessi. Soprattutto in Europa.

L’ESPRESSO

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