Coronavirus, come si calcola l’indice di contagio R0 da cui dipenderà quando potremo tornare a uscire

L’indice di riproduzione dipende da quante persone al giorno incontra un individuo malato e contagioso, quanto a lungo rimane tale e «dalla probabilità di trasmissione dell’infezione per singolo contatto — scrive Salmaso —. Tutte queste quantità sono difficili da osservare direttamente e in genere ci si basa su stime, sotto diverse assunzioni, che vengono utilizzate per costruire modelli matematici a loro volta più o meno rispondenti al vero a seconda appunto della bontà delle assunzioni». Detto altrimenti, soprattutto quando si ha un virus nuovo come Sars-Cov-2, l’R0 non è mai un dato certo, ma il frutto di valutazioni e calcoli sulla base delle conoscenze disponibili (perennemente in evoluzione). «R0 viene sovente stimato retrospettivamente in modo empirico, ossia osservando la velocità di crescita del numero totale dei casi giorno dopo giorno. Sapendo la data di insorgenza dei sintomi, il tempo di incubazione e l’intervallo di tempo tra la comparsa dei sintomi nel caso primario e la comparsa dei sintomi nei casi secondari (detto tempo seriale) è possibile ricostruire le diverse generazioni di casi e stimare l’indice di riproduzione» chiarisce ancora Salmaso.

«Nell’attuale pandemia, R0 è stato stimato all’inizio, ad esempio in Lombardia, con un valore pari a 2,6» che è piuttosto alto. L’isolamento generalizzato e il distanziamento fisico sono stati introdotti proprio per abbassarlo «dando per scontato che molte infezioni non vengono riconosciute e si possono propagare in modo silente». Il problema però è che tuttora non conosciamo con certezza tutta una serie di dati che servono a stimare con precisione R0, a cominciare dalla data di insorgenza dei sintomi per la maggior parte dei malati ufficiali (cioè tamponati). «Quando manca la data di inizio dei sintomi, viene usata la data dell’accertamento virologico dell’infezione. Se gli accertamenti fossero fatti tutti alla stessa distanza dall’inizio dei sintomi, usare una data o l’altra non farebbe grande differenza per riconoscere le diverse generazioni di contagi, ma in realtà sappiamo che il sistema di accertamento è andato in affanno in molte aree del Paese e i tamponi sono stati effettuati come si poteva, quando si poteva». Non solo: l’indice di riproduzione generale è «una stima di intensità di trasmissione nella popolazione generale in cui si assume che tutti abbiano le stesse probabilità di contrarre l’infezione».
Ma in realtà oggi non è così: chi sta a casa da solo, rispettando i divieti, ha una probabilità molto più bassa di coloro che convivono con un positivo accertato, oppure di un lavoratore di strutture sanitarie come le Rsa dove ci sono già state infezioni accertate. «Anche qui, nella conta quotidiana dei casi diagnosticati, sembra importante sapere quanti di questi siano associati a un medesimo focolaio di contagi — dice Salmaso —. Perché in quel caso la trasmissione non è riferibile alla popolazione generale, bensì ad un contesto circoscritto». Per questo, ancora una volta serve più chiarezza nei dati: sapere dove e quando si sono contagiati i nuovi ammalati permette di capire meglio il tasso di riproduzione reale (e specifico) di Covid-19. Invece finora la cosiddetta «sorveglianza epidemiologica», con le Regioni che sono andate in ordine sparso su test, tracciamenti dei contatti e registrazione dei casi, ha lasciato molto a desiderare. Senza dati adeguati però è impossibile affrontare l’epidemia. Soprattutto se da quei dati dipende la possibilità di allentare l’isolamento in cui viviamo da quasi due mesi.

CORRIERE.IT

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