Il Covid dei poveri e degli eroi a New York

Angel parte dunque dall’aeroporto di Stewart, commerciale e militare, senza turisti come il Kennedy, condiviso con i militari del 105th Airlift Wing della Guardia Nazionale di New York e il Marine Aerial Refueler Transport Squadron 452 del corpo dei Marines. Quando l’Aviazione Usa non era ancora un corpo autonomo, ma faceva ancora parte dell’Esercito, i cadetti della vicina Accademia di West Point, fortezza antica sull’Hudson, imparavano a volare su quelle piste.

Dalla guerra alla pace alla pandemia, Stewart resta in prima linea e Angel è un dei  tanti, eroici, fanti che prova a resistere alla paralisi sovrastante. A distanza di sicurezza, mi spiega, senza spegnere il motore per la fretta: “18 dei miei colleghi son rimasti a casa, si son messi in malattia impauriti e non ce la facciamo ad andare avanti con le consegne puntuali. Anche io ho famiglia, ma che faccio? Lascio tanta brava gente senza i pacchi che aspetta? All’alba vado a Stewart, carico il camioncino, e vado di casa in casa, mi inoltre lungo i boschi delle montagne Catskills, faccio il mio dovere”.

Oltre 30 milioni di americani hanno perduto il lavoro per il virus, quasi tutti restando, secondo il modello sanitario locale che lega la mutua alle aziende private, senza assistenza se si ammalassero. 14,7% di tasso di disoccupazione è record, battendo forse quello dei tempi in cui la cena era pesce gatto arrosto, ogni giorno. I poveri, le minoranze, sono preda del virus perché sono loro a fare i lavori che un computer in tinello non assolve, guidare la metropolitana nei bui cunicoli del Bronx, fare le pulizie in ospedale, lavorare alla cassa dei supermercati Whole Foods del miliardario di Amazon Jeff Bezos che, come editore del quotidiano Washington Post fa il liberal anti presidente Trump, ma poi lancia una app non per monitorare il virus, ma per schedare i lavoratori che vorrebbero aderire al sindacato. 

La storica rivista di sinistra Mother Jones manda un inviato nelle case di cura per chi non ha soldi, e il reportage è drammatico “Nulla se non morte”: un terzo delle vittime Usa, totale ad oggi 80. 326 su 1.352.490 casi, si conta in quei tristi istituti. Al Coler Rehabilitation and Nursing Care Center, sull’isolotto di Roosevelt Island, al largo di Manhattan, vive, per esempio, Levar Lawrence, 43 anni, da 15 paralizzato per una sparatoria di cui fu bersaglio. Racconta di esser stato abbandonato nel suo letto, incapace di raggiungere i volontari di Open Doors che gli hanno insegnato a dipingere e fare arti visuali usando un gadget che manovra con la bocca. Tanti, come Levar, sono rimasti soli, senza speranza.

Storie così fanno dire al columnist Timothy Egan del New York Times che l’egemonia americana nel mondo è ferita per sempre dalla penosa reazione collettiva al virus, la povertà interna riesce dove la poderosa Unione Sovietica non riuscì con le ogive atomiche durante la Guerra Fredda, a diffondere l’immagine di un’ex superpotenza, depressa, divisa, debole. “Il mondo ha pietà di noi. Risorgerà mai il prestigio americano?” titola il saggio di Egan citando l’inchiesta di due colleghi, Ed O’Loughlin and Mihir Zaveri, che val la pena di raccontare. Nel 1847, durante la carestia dovuta ai mancati raccolti di patate in Irlanda che costò un milione di morti, la tribù indiana dei Choctaw fece una colletta per inviare fondi agli irlandesi affamati. In segno di gratitudine per quel gesto magnifico, 173 anni dopo, il governo di Dublino ha mandati soccorsi alle comunità di Native Americans colpite dalla pandemia, con l’acre commento di Fintan O’Toole sul popolare The Irish Times “La nazione che Trump voleva rendere di nuovo grande –“Make America Great Again”, MAGA, è lo slogan che adorna i rossi cappellucci da baseball ai comizi sterminati, ora fermi, del presidente Trump- non è mai apparsa tanto in pena. Si riprenderà mai il prestigio Usa da questa stagione di vergogna?”.

 I sondaggi dello statistico Nate Silver confermano che le elezioni presidenziali di novembre fra il presidente repubblicano e il suo sfidante democratico, l’ex vicepresidente Joe Biden, che dovevano essere un referendum sul trumpismo, controverso ma con Borsa alla stelle e piena occupazione, si trasformano in un referendum sulla caotica reazione al coronavirus, con il vicepresidente Mike Pence e il potente genero Jared Kushner finora impotenti a disegnare una strategia efficace. In febbraio -una vita fa- il settimanale The Economist dedicò, troppo frettolosamente, la sua copertina al duello ritenuto inevitabile tra il senatore socialista Bernie Sanders e Trump, lasciando intendere che il presidente avrebbe, a mani basse, rivinto. Gli elettori della South Carolina, anziani, neri e moderati, risuscitarono a sorpresa la candidatura di Biden, che non aveva neppure un ufficio funzionante per la campagna elettorale locale o spot tv in prima serata, capovolgendo la storia.

Negli stati chiave del 2020, Wisconsin, Pennsylvania, Michigan, i centristi, gli indipendenti, gli anziani fiutano il vento in silenzio. Tra gli elettori maschi c’è sostanziale pareggio tra Trump e Biden, con il presidente in vantaggio tra i bianchi, ma tra le donne Biden è avanti del 20%. Una fonte di Washington spiega a Huffington Post “Chi incontra il presidente Trump in questi giorni, membri dell’amministrazione, parlamentari dell’opposizione, diplomatici, giornalisti racconta la stessa storia: Trump si sente accerchiato, ferito, incredulo di esser passato dall’offensiva di gennaio alla rotta di maggio”. Ai suoi il presidente ripete “Come è possibile che l’occupazione sia crollata?” e le sfuriate dividono il governo.

 Angel segue poco la politica, troppo occupato da pacchi, sveglie notturne, miglia da macinare in solitudine “Senza neppure il caffè nero bollente che i clienti affezionati mi offrivano sempre”. Ne ho preparato una tazzona piena, regular American coffee, e l’ho lasciata in veranda, sperando che, malgrado l’ondata artica sul Nord Est americano, non si freddasse subito. Angel l’ha sorbito gentile, ringraziando, ed è ripartito. Lo guardavo allontanarsi tutto serio, pensando che sarà giusto la gente come lui a decidere se, anche nel XXI secolo, l’America resterà egemone.

L’HUFFPOST

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