Il ritorno a destra del Movimento 5 Stelle
Della polvere magica del populismo l’Italia è stata a lungo
un’incubatrice. Oggi che il Paese sta tentando una possibile uscita
dalla fase dell’emergenza si ritrova di fronte al rischio di un ritorno
al punto di partenza. I mali antichi, le difficoltà strutturali di
sempre di cui parla Stefano Allievi in “La spirale del sottosviluppo.
Perché così l’Italia non ha futuro” (Laterza): demografia, crescita
ridotta, ritardo del sistema di istruzione, emigrazione giovanile verso
l’estero, mercato del lavoro inadeguato, immigrazione non gestita che
provoca guerra tra poveri e insicurezza. Tutto questo è stato accelerato
dall’epidemia e ora nella fase che si è aperta si vede il suo
potenziale distruttivo su quel tessuto comunitario e civile che durante
l’emergenza si era rinsaldato. Con un sistema politico che, in parallelo
al calo del numero dei contagi, torna a mostrare le sue crepe. Come
dimostra lo scontro nella maggioranza di governo sulla questione della
regolarizzazione dei lavoratori nelle campagne e nel lavoro domestico,
non solo stranieri ma anche italiani.
Dopo un estenuante braccio di ferro, tra dietrofront, bozze concordate e
poi stracciate, l’accordo è stato raggiunto nella notte tra il 12 e il
13 maggio, per le minacce di crisi agitate dalla ministra delle
Politiche agricole Teresa Bellanova, che guida il drappello di Matteo
Renzi nella squadra di governo, e grazie alla determinazione all’interno
del governo del ministro del Sud Peppe Provenzano, l’ala sinistra del
Pd. Ma lo scontro ha rivelato, come mai era avvenuto fino a
questo momento, l’esistenza di una doppia anima all’interno della
maggioranza Pd-Movimento 5 Stelle. Dopo più di due anni dalla
vittoria elettorale del 2018, il Movimento che fu di Gianroberto
Casaleggio e di Beppe Grillo sta provando a riprendere il suo ruolo
politico, in quello spazio che ha sempre frequentato e che nell’ultimo
anno, fino all’inizio dell’emergenza covid, era stato occupato dalla
nuova Lega di Matteo Salvini.
È lo spazio della destra, certo, ma in questo modo non si è detto ancora abbastanza. Perché è una nuova destra quella che è avanzata negli ultimi anni. Una
destra che ha infine compiutamente interiorizzato lo slogan di
Margareth Thatcher di inizio anni Ottanta: la società non esiste,
esistono solo gli individui. Con il corollario reaganiano: il governo
non è la soluzione, è il problema. Fu la rivoluzione conservatrice di
quarant’anni fa, il 1980 in cui l’ex attore fu eletto alla Casa Bianca.
Oggi la nuova destra ha percorso questo cammino lungo quattro decenni.
Si fa forza di un sistema culturale che non è fondato sugli individui,
ma sulla polverizzazione della loro identità. Individui abbandonati ai
loro bisogni e alle loro paure, senza servizi sociali, senza corpi
intermedi, come il Joker del regista americano Todd Phillips, ciascuno è
solo con i suoi bisogni e le sue paure. Nello straordinario reportage
fotografico di Valerio Bispuri commentato da Ascanio Celestini con
l’inchiesta di Giovanni Tizian e l’intervento di Costanza Jesurum
prendono volto e carne le storie delle persone lasciate indietro, con la
malattia mentale che spesso coincide con la povertà economica.
Il governo gialloverde, il Conte uno, era la piena rappresentazione di questa ideologia potente.
Il cittadino solo di fronte alla sua domanda di sicurezza: la legge
sulla legittima difesa voluta da Salvini. Il cittadino solo di fronte
alla sua richiesta di certezza economica: il reddito di cittadinanza, la
bandiera elettorale del Movimento 5 Stelle. Il tutto doveva essere
completato con l’introduzione della flat tax, agitata dal Capitano
leghista, che nell’immaginario significava un abbassamento generalizzato
della pressione fiscale e la restituzione ai singoli cittadini di
risorse destinate allo Stato. Con ulteriore restringimento delle
politiche pubbliche, a partire dalla sanità e dalla scuola e degli
strumenti di protezione sociale per chi ha perso il lavoro: i tre
settori che oggi tutti considerano decisivi per la ripartenza o meno del
sistema Italia.
Sembrava che l’emergenza coronavirus, con la sua richiesta di pubblico,
avrebbe spazzato via dal dibattito le parole chiave della nuova destra:
la disintermediazione, nessuna mediazione tra leader e individuo,
disprezzo per associazioni, comitati, tutto quello che fa da cerniera
tra le istituzioni e la società. Invece, questo atteggiamento è
riemerso subito e fa da sfondo anche alle diverse reazioni delle destre
italiane rispetto alla liberazione della cooperante italiana Silvia
Romano, tenuta prigioniera dalle bande islamiche in Somalia per
un anno e mezzo. Esponenti di Fratelli d’Italia come Francesco Storace,
Guido Crosetto, Fabio Rampelli, hanno reagito alla criminalizzazione
della ragazza di Milano in nome di un’idea di Stato che si fa carico
della vita dei suoi cittadini (anche a costo di pagare un riscatto) e
della difesa dei ragazzi che si impegnano nelle organizzazioni
umanitarie. La Lega di Salvini e la muta dei social si sono invece
scatenati contro una giovane che si è resa colpevole del reato più
grave, quello di cui a quanto pare non bisogna macchiarsi mai agli occhi
di questa destra: interessarsi degli altri.
Questa concezione dello Stato, della società e della convivenza umana è
presente anche all’interno della maggioranza di governo. Il
Movimento 5 Stelle ha ripreso a salire nei sondaggi e la Lega a
scendere, al contrario di quanto era avvenuto tra il 2018 e il 2019,
quando il partito di Salvini aveva cannibalizzato tutto il suo consenso.
Un anno fa, di questi tempi, si stava concludendo la campagna per le
elezioni europee, stravinte dal ministro dell’Interno dell’epoca. Come
per Matteo Renzi, che aveva trionfato nel 2014 con il 40 per cento del
Partito democratico, così anche per Matteo Salvini quella vittoria (il
34 per cento), inutile per contare di più in Europa, ha segnato l’inizio
della fine in Italia. Da quel momento in poi il Capitano non ne ha
imbroccata una: l’indagine della Procura di Milano sul Russiagate aperta
dopo l’inchiesta giornalistica dell’Espresso, la crisi d’agosto, la
perdita della golden share governativa, la sconfitta alle elezioni
regionali in Emilia di fine gennaio. E poi la dissennata condotta
durante l’emergenza virus, il calo nei sondaggi, il crollo del modello
Lombardia e l’ingresso in scena di agguerriti concorrenti interni come
il presidente del Veneto Luca Zaia. Ma la nuova destra, lo
abbiamo sempre scritto, non si sconfigge con un’operazione politica di
Palazzo ma con la riscrittura dell’agenda del Paese, servirebbe
una specie di riconversione culturale, se questa espressione non
assomigliasse troppo a un dirigismo dall’alto fuori tempo e fuori luogo.
C’è questa pulsione nel profondo della società italiana che neppure i
mesi del virus hanno spezzato. Anzi, le conseguenze economiche del dopo
emergenza la rilanceranno. Lo si vede in queste settimane di
confusissima ripartenza: il caos delle competenze, le richieste delle
categorie e delle lobby organizzate che sono l’altra faccia della
pericolosa solitudine cui è abbandonato il singolo cittadino.
Lo Stato si presenta con il volto pasticcione e arrogante del commissario Domenico Arcuri,
che a sua volta se la prende un po’ con tutti, con i farmacisti e
perfino con il governo che lo avrebbe abbandonato. C’è la corsa a
rappresentare politicamente gli scontenti della ripartenza, l’area della
sfiducia, della rabbia e del rancore di nuovo in crescita, come ha
scritto Alessandra Ghisleri (La Stampa, 12 maggio), che trova sponda
naturale nel Movimento 5 Stelle.
L’ex capo dei grillini in pochi mesi ha piazzato un esercito di 70 fedelissimi dentro ministeri, banche, società partecipate ed enti pubblici. Obiettivo: rafforzare la sua rete di potere. E riconquistare il M5S
M5S fu la federazione di tutti i vaffa e oggi è al tempo stesso con Luigi Di Maio il partito della poltrona continua da elargire ai famigli (lo racconta Emiliano Fittipaldi) e il partito deciso a riconquistare quello spazio elettorale che era stato occupato un anno fa dalla Lega di Salvini con il “gerarca minore” Vito Crimi (come lo ha scolpito per sempre Massimo Bordin). Di qui la spinta a considerare i migranti nelle campagne come pura manodopera a basso costo, senza permesso e senza diritti di cittadinanza.
Così l’uno vale uno mostra il suo volto più ridicolo e più feroce: non vale per gli stranieri, come in realtà scrissero i padri fondatori Casaleggio e Grillo: «Se durante le elezioni politiche avessimo proposto l’abolizione del reato di clandestinità, il M5S avrebbe ottenuto percentuali da prefisso telefonico. Quanti clandestini siamo in grado di accogliere se un italiano su otto non ha i soldi per mangiare?». Va detto che in quel caso la Rete votò contro il parere dei fondatori di M5S, ma la battaglia di Crimi (e di Di Maio) contro la regolarizzazione dei lavoratori stranieri rappresenta per il Movimento un ritorno alle origini.
Che richiede alla sinistra che governa con Crimi e Di Maio e Conte un’uscita dall’afonia politica in cui sembra essere piombata in questi mesi. Nel governo e nella maggioranza c’è chi punta sul fatto che la società non esiste, e si prepara a rappresentare il vento della disgregazione sociale. Il Movimento di Di Maio e di Crimi si passa il testimone con Salvini, vogliono una società di persone sole, privi di legami sociali, e un esercito di senza diritti pronti a servirli in tavola, come moderni schiavi.
Per questo c’è bisogno di un insieme di forze che facciano con determinazione la scommessa opposta. Un partito, lo assicurava Nicola Zingaretti, che non si appiattisca sulla presenza ministeriale ma che compia quel tratto che distingue un provvedimento appena civile come quello sulle regolarizzazioni da un progetto politico da una visione di società più complessiva. Un tempo avremmo chiamato tutto questo sinistra, oggi chissà.
L’ESPRESSO
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