Le Regioni e la pandemia
Dovevano concertarsi tra di loro e con il governo nazionale. A questo scopo erano state istituite apposite conferenze, delle Regioni e di Regioni e Stato. Hanno invece alimentato conflitti, con atteggiamenti rivendicazionisti, rivolgendosi alla Corte costituzionale (divenuta giudice di conflitti, piuttosto che di diritti) o portati al Parlamento nazionale (con la richiesta di autonomie differenziate, cioè di maggiori risorse finanziarie). Dovevano esser tutta testa, con piccoli corpi. Hanno ora più di 70 mila dipendenti, ai quali va aggiunta una gran parte dei 700 mila addetti alla sanità pubblica. Alle dimensioni si aggiungono i difetti delle assunzioni, spesso fatte non secondo criteri di merito, ma sulla base di appartenenze politiche e clientelari.
Molte debolezze nascono dalla Costituzione stessa. All’Assemblea costituente solo repubblicani e democristiani si impegnarono a fondo per l’introduzione delle Regioni. Ma le norme costituzionali furono «un vaso vuoto» (Gaetano Salvemini), «una pagina bianca» (Massimo Severo Giannini). Solo ventidue anni dopo, alla fine del disgelo costituzionale, le Regioni vennero istituite. Ma lo furono come una «gigantografia del comune» mentre ci si aspettava che fossero «la via per salvare lo Stato» (sono parole di Massimo Severo Giannini, che, dopo aver lavorato alla preparazione della Costituzione, dedicò molte energie alla legislazione di trasferimento di compiti statali alle Regioni). Sempre Giannini giudicò nel 1971 i primi passi delle Regioni «proprio poveri»; il primo trasferimento di compiti, quello del 1972, «disastroso»; il secondo, quello del 1977, «una carica di sgorbi». Seguirono la presidenzializzazione regionale del 1999, due altri trasferimenti di compiti (1998 e 2001), la soppressione dei controlli, l’abbandono delle leggi cornice, la riforma costituzionale del 2001, ispirata dall’idea della sinistra di togliere spazio alle proposte federaliste della Lega.
Mentre le Regioni si consolidavano come parte dell’architettura della Repubblica, accadde quello che i critici temevano. Si accentuò lo squilibrio Nord-Sud. L’inserimento di un livello politico nella «linea di comando» tra centro e periferia (quella che, secondo un ministro di Napoleone, doveva servire a «trasmettere i comandi con la rapidità del fluido elettrico») portò allo smembramento di preziosi corpi amministrativi (un esempio: il genio civile) e a un dualismo periferico: basta leggere i tanti decreti legge e dpcm degli ultimi mesi per accorgersi che il governo centrale negozia con le regioni, ma si vale dei prefetti, quando si tratta di assicurare l’esecuzione delle proprie decisioni (si ripete una vicenda del periodo fascista, quando Mussolini operava talora tramite i federali, ricorreva altre volte ai prefetti).
Il 20 febbraio scorso, iniziando i festeggiamenti del cinquantenario, il presidente della Conferenza delle Regioni, scriveva che l’azione regionale si è espansa «al di là del mero catalogo delle competenze legislative». «Quando c’è da prospettare opportunità di sviluppo, quando si vuole realizzare una politica di rilancio degli investimenti pubblici, oppure quando c’è da gestire una emergenza, si fa necessariamente riferimento alla dimensione regionale»; «la stessa concertazione istituzionale basata su accordi o patti Stato-Regioni è diventata per ogni governo un percorso di seria concretezza istituzionale». Purtroppo, gli eventi successivi hanno smentito molti di questi propositi. Le Regioni dovevano rappresentare un diverso modo di gestire. Ci si aspettava che misurassero prodotti, servizi, loro qualità, soddisfazione dei cittadini. Oggi paiono preoccupate principalmente nella misurazione della popolarità dei loro presidenti, chiamati pomposamente governatori. Dovevano costituire la soluzione dell’annoso problema dello Stato, sono divenute esse stesse parte del problema.
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