Che cosa abbiamo imparato dopo sei mesi di coronavirus (e che cosa ci resta da scoprire)

Non si sa come il singolo organismo reagisce alla malattia. Inoltre secondo i dati di Epicentro, circa il 27% di chi ha il virus è asintomatico: queste persone in giro potrebbero infettare in modo inconsapevole altri che, magari più fragili, potrebbero sviluppare la malattia in modo severo. Ci si chiede quanto è sicuro lavorare in ufficio, prendere i mezzi pubblici, salire su un aereo, se si potrà tornare a scuola o andare al ristorante in sicurezza. Molti studi stanno dimostrando la diffusione del virus per via aerea, anche attraverso le goccioline più piccole emesse parlando o respirando (terza via di contagio non ancora riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della Sanità). Per tutti questi motivi dobbiamo ancora mantenere il distanziamento sociale e indossare la mascherina nei luoghi chiusi. In autunno la raccomandazione per tutti è fare il vaccino contro l’influenza per evitare di confondere i sintomi con Covid-19 e intasare i pronto soccorso, nel caso si ripresenti, come molti sostengono, una seconda ondata.

La mascherina va indossata

La mascherina va indossata. È vero che sul tema le indicazioni sono state confuse: all’inizio la stessa Oms scoraggiava l’utilizzo alla popolazione generale ma quando il virus ha cominciato a circolare l’uso della mascherina è diventato importante per proteggersi a vicenda e soprattutto fermare le goccioline potenzialmente infettive che escono dal naso o dalla bocca di chi le indossa. In uno studio pubblicato ad aprile su Nature i ricercatori hanno dimostrato che quando le persone infette da influenza, rinovirus o altri coronavirus lievi, le mascherine bloccano quasi il 100% delle goccioline virali. Altri studi hanno dimostrato che le mascherine chirurgiche bloccano tra il 50 e l’80% delle particelle mentre le maschere di tessuto ne bloccano dal 10 al 30%. Indossare una mascherina è meglio di niente. Coprirsi il viso è inoltre un modo per evitare di toccarselo senza volerlo, scongiurando la trasmissione della malattia per contatto con le superfici contaminate. Le mascherine si possono anche autoprodurre (qui la classifica dei materiali migliori)

Non possiamo contare sull’immunità di gregge

L’immunità di gregge è un meccanismo per cui, quando la maggior parte di una popolazione è immune nei confronti di una infezione (perché l’ha contratta o è stata vaccinata), l’agente patogeno non trova soggetti da infettare, rendendo protetti per via indiretta anche i pochi che sono ancora suscettibili. L’immunità di gregge non può essere indotta volontariamente lasciando infettare il maggior numero di persone, è piuttosto un obiettivo da raggiungere tramite le campagne vaccinali. Realisticamente si stima che in Italia abbia sviluppato una risposta immunitaria tra l’1,8% al 2%. Una cifra lontana anni luce dall’immunità di gregge che potremmo avere se il 66% della popolazione (quindi 40 milioni di persone) avesse gli anticorpi. Dal momento che l’immunità di gregge «naturale», quella che avrebbe voluto Boris Johnson per intenderci è un’utopia, tutte le speranza sono riposte sul vaccino. Ma non è detto che sia sufficiente. Se è vero che il vaccino elimina in modo efficace malattie come morbillo, rosolia, vaiolo non si può dire la stessa cosa per le malattie respiratorie come Covid-19. Influenza e pertosse (quest’ultima più che altro negli Stati Uniti) sono sempre piuttosto diffuse anche se molte persone si sono vaccinate, questo perché gli anticorpi che proteggono le persone dai virus che colpiscono le vie aeree superiori tendono ad avere vita breve. Quindi è possibile che se mai verrà sviluppato un vaccino efficace potrebbe essere simile a quello antinfluenzale: potrà ridurre l’incidenza della malattia e renderla meno grave, ma non farà scomparire Covid-19 e potrebbe essere necessario ripetere il vaccino nel tempo per «rinfrescare» gli anticorpi.

I sintomi non sono solo tosse e mancanza di respiro

Covid-19 è una malattia respiratoria virale. All’inizio dell’epidemia abbiamo visto migliaia di pazienti che avevano bisogno di ossigeno e ventilatori. Ma sappiamo oggi che la malattia non attacca solo i polmoni ma può colpire anche cuore, cervello , reni e fegato: è una malattia multisistemica. I primi sintomi dell’infezione di solito sono tosse secca, mancanza di respiro, febbre, ma sono stati osservati anche mal di gola, brividi, dolori muscolari, disturbi gastrointestinali come diarrea e nausea. Un altro segno dell’infezione può essere l’improvvisa perdita di gusto e olfatto, anche senza altri sintomi. Bambini e adolescenti hanno sviluppato lesioni violacee, a volte dolorose, a mani e piedi, simili a geloni anche se non è ancora provato un collegamento con Covid-19. sono inoltre presenti altre manifestazioni cutanee. I pazienti più gravi possono sviluppare pericolosi coaguli di sangue nelle gambe e nei polmoni. In casi rari la malattia innesca ictus ischemici, anche in pazienti più giovani.

Possiamo preoccuparci meno dell’infezione attraverso le superfici

Uno studio pubblicato a marzo dal New England Journal of Medicine ha scoperto che il virus, in condizioni di laboratorio, può sopravvivere fino a tre giorni sulle superfici come plastica acciaio e solo 24 ore sul cartone. La ricerca aveva allarmato il mondo per il rischio di contrarre il virus attraverso il contatto con superfici contaminate portandosi poi le mani sulla bocca, sul naso, agli occhi, porte di ingresso del virus. Altri studi hanno scoperto il virus nelle prese d’aria degli ospedali, sui muse dei computer sulle maniglie delle porte. Ma nessuna di queste ricerche ha testato il virus vivo, sono state trovate solo tracce del suo materiale genetico. Molti scienziati sostengono che il virus possa degradarsi rapidamente. Resta importante lavarsi le mani, ma il contatto con superfici contaminate non sembra una via di contagio importante. La via principale di contagio è l’inalazione diretta di goccioline rilasciate quando una persona infetta starnutisce, tossisce, canta, parla.

Il virus non è mutato

Il virus non è mutato in modo significativo dal punto di vista genetico, né in peggio né in meglio nonostante in questi mesi ciclicamente siano state date notizie in questo senso. Molte di queste preoccupazioni sono dovute a un malinteso di base su che cosa significhi davvero quando un virus muta. Quando una cellula infetta produce nuovi virus a volte commette errori nel copiare i geni virali. Questi errori sono mutazioni ma non portano a nessun cambiamento nel funzionamento del virus. Il nuovo coronavirus non sembra mutare rapidamente: su quasi 35 mila sequenze inserite da tutto il mondo in banca dati ad oggi nessuna va in questa direzione. Questo è un sollievo per i produttori di vaccini. I virus dell’influenza mutano così rapidamente che le persone devono sottoporsi al vaccino ogni anno per proteggersi. L’Hiv ha una tale diversità genetica che non è ancora stato trovato un vaccino efficace nonostante trent’anni di ricerca.

Meno persone in ospedale

Il virus, almeno in Italia, sembra avere manifestazioni meno gravi. È un’evidenza condivisa che pochi dei nuovi pazienti vengono ricoverati in ospedale, quasi nessuno in terapia intensiva. Nelle ultime settimane negli ospedali, anche in Lombardia, sono arrivati pochi pazienti e tutti con sintomi lievi. Il virus è tutt’altro che scomparso ma sembra uccidere meno. Si ipotizza una minor carica virale e una minor capacità di replicazione del virus, ma sul perché le ipotesi non sono univoche.

Non possiamo contare sul caldo per sconfiggere il virus

Meglio non illuderci: il clima caldo e umido dell’estate non fermerà la pandemia. Sole e umidità probabilmente rallenteranno la diffusione della malattia ma è difficile calcolare di quanto. Altri fattori come il fatto che viaggiamo meno, le scuole chiuse, il distanziamento sociale, le riunioni di persona annullate, l’utilizzo delle mascherine contribuiscono a mitigare gli effetti nel lungo termine. È vero che i raggi ultravioletti aiutano a distruggere il virus sulle superfici e alcuni studi hanno dimostrato anche un piccolo effetto portato dall’umidità. Sappiamo che il virus sopravvive più a lungo su superfici dure come plastica e metallo ma non sa nuotare e non sopravvive in acqua. Il vento disperde il virus e il rischio di trasmissione è inferiore all’esterno (ma attenzione al vento) rispetto all’esterno. Meglio allora scegliere una panca di legno sotto il sole di una spiaggia ventilata piuttosto che una sdraio in metallo sul lato ombreggiato di una piscina. Ma se qualcuno di infetto ti siede accanto e tossisce, canta o parla ad alta voce non importa dove sei seduto e quanto sole ci sia: quello è il modo più frequente di contagio. Certamente durante la stagione estiva stiamo molto di più all’aperto, in casa e in ufficio apriamo le finestre ventilando le stanze e questi fattori contribuiscono in modo importante a disperdere il virus e di conseguenza al calo delle infezioni.

Non sappiamo i dati reali del contagio

Non sappiamo quante persone in realtà siano state contagiate dal nuovo coronavirus in Italia e nel mondo. I dati ufficiali italiani al primo giugno parlano di quasi 234 mila persone contagiate e 33.475 decessi. Ma sappiamo bene moltissime persone hanno accusato sintomi di Covid-19 ma per mancanza di risorse non hanno potuto accedere al tampone. Per un lungo periodo i tamponi sono stati fatti solo a chi entrava in ospedale con sintomi severi. Il numero di persone che ha accusato i sintomi da Covid-19 e si è curato a casa resta un’incognita. Una risposta potranno darcela gli studi epidemiologici in corso un po’ in tutta Italia che rappresentano uno strumento prezioso per valutare la prevalenza e la diffusione del virus nella popolazione. Una prima mappa tra chi ha incontrato Covid-19 in Lombardia l’ha sviluppata il gruppo Humanitas che ha svolto un’indagine epidemiologica sui 4000 dipendenti dei diversi poli lombardi. A Milano ha contratto il virus il 6-9% dei dipendenti, a Bergamo si arriva al 43%. Altre Regioni stanno conducendo indagini simili ma è chiaro che la percentuale sarà più alta nelle aree in cui il virus ha colpito di più. Anche i dati sui decessi sono sottostimati perché molte persone sono probabilmente morte di Covid-19 senza però aver avuto accesso al tampone.

Non sappiamo la quantità di virus necessaria a farci ammalare

A oggi non si può dire con certezza qual è il numero minimo di particelle virali necessarie per trasmettere l’infezione: il numero è compreso tra 1 e un milione. Alcuni scienziati parlano di una forbice più limitata: da poche centinaia a qualche migliaio. Alcuni esperti stimano che siano sufficienti appena 1000 particelle virali di Sars-CoV-2 per ammalarsi, ma nessuno al momento conosce questo dato con certezza, almeno fino a quando non verranno portati a termine una serie di studi in corso. Certamente l’esposizione a un numero maggiore di particelle virali comporta maggiori probabilità di infezione e anche di causare sintomi più gravi. Ecco perché è importante evitare spazi interni affollati, indossare maschere e lavarsi le mani. Ciascuno di questi comportamenti può ridurre le possibilità di essere esposti a grandi quantità di virus.

Non sappiamo perché qualcuno si ammala gravemente ed altri no

Covid-19 è una malattia a doppia faccia. Mentre alcune persone manifestano solo sintomi lievi che si risolvono in poco tempo altre vengono colpite da una malattia grave che può durare intere settimane. Una minoranza di pazienti sviluppa complicazioni potenzialmente letali. Perché qualcuno si ammala gravemente e qualcun altro quasi non si accorge della malattia resta forse il più grande mistero ancora irrisolto di Covid-19. Alcuni esperti affermano che la risposta immunitaria del paziente all’infezione determina la gravità dell’infezione. Se il sistema immunitario va in overdrive si scatena la «tempesta di citochine» e i pazienti, soprattutto giovani e forti, rischiano di essere traditi dalla reazione troppo efficiente del loro sistema immunitario che oltre al virus attacca i polmoni e altri organi . La funzione immunitaria diminuisce con l’età e gli anziani, soprattutto nella fascia d’età 70-79 anni, risultano più vulnerabili a infezioni gravi e fatali così come chi soffre di patologie croniche come ipertensione, diabete e malattie cardiovascolari. Gli uomini rischiano più delle donne di ammalarsi gravemente e di morire. È curioso che i novantenni sembrano resistere di più a Covid-19 rispetto ai più giovani settantenni. In generale i pazienti si ammalano più rapidamente se vengono esposti a dosi più massicce di virus. Gran parte della ricerca scientifica si è concentrata sul ruolo del recettore ACE2,che si trova sulle superfici esterne delle cellule polmonari, nei vasi sanguigni, nell’intestino, in altri organi e nella parte posteriore di naso e gola. Attraverso questo recettore il virus entra nel nostro organismo. Una delle teorie per cui i bambini sembrano essere meno suscettibili al coronavirus è che hanno un minor numero di questi recettori.

Non conosciamo il ruolo dei bambini nella diffusione del virus

Le domande irrisolte sul ruolo dei bambini nell’infezione sono moltissime. Riuscire a trovare una risposta è fondamentale anche in vista della riapertura delle scuole a settembre. I bambini si ammalano meno gravemente degli adulti e la fascia 0-18 anni in Italia rappresenta il 2% dei contagi, in linea con il resto del mondo. Esistono varie teorie su questo aspetto ma gli scienziati sono divisi:secondo alcuni un numero crescente di prove suggerirebbe che i bambini sono a minor rischio, mentre altri ritengono che l’incidenza dell’infezione nei bambini sia inferiore rispetto agli adulti, in parte perché non sono stati molto esposti al virus, dato che in tanti Paesi le scuole sono state chiuse. A ciò si aggiunga che non vengono sottoposti così spesso ai test come gli adulti, poiché tendono ad avere sintomi lievi o assenti. Se davvero i bambini sono contagiosi e quanto siano suscettibili è oggetto di grande dibattito nella comunità scientifica. Negli Stati Uniti è stato avviato uno studio su 6000 bambini e 2000 famiglie proprio con l’obiettivo di chiarire il loro ruolo nella diffusione del virus. Un’analisi pubblicata sul British Medical Journal era intitolata: «I bambini non sono superdiffusori, è ora di tornare a scuola» mentre un altro articolo pubblicato su Jama ha concluso che i bambini esprimono meno il recettore Ace2, porta di ingresso del virus, nel naso per questo ammalandosi meno sarebbero anche meno contagiosi. Sebbene la maggior parte dei bambini che si è ammalata di Covid-19 non abbia sofferto di sintomi gravi alcuni bambini si sono invece ammalati in modo serio. E in alcuni casi hanno sviluppato la rara sindrome di Kawasaki che provoca gravi problemi cardiaci. Neonati e bambini in età pre scolare sembrano sviluppare la malattia in modo più grave rispetto ai più grandicelli.

Non conosciamo se l’immunità dura nel tempo (e se vale per tutti)

Le persone che si sono ammalate sono protette da ulteriori infezioni?E se sì per quanto tempo? Una risposta definitiva avrebbe implicazioni importanti per la ripresa dell’economia e anc he per vivere con minor timore la possibilità di una seconda ondata. Sul singolo a oggi ancora non sappiamo se la presenza di una certa quantità di anticorpi è la spia di una risposta immunitaria che assicura protezione contro l’infezione. Per chi ha davvero sviluppato la malattia possiamo ragionevolmente pensare che per un certo periodo resterà protetto da Sars-CoV-2. La Sars dava ai guariti un’immunità di 2-3 anni e questo virus gli è parente. Il problema è che la stragrande maggioranza delle persone che incontra Covid-19 o non si ammala o lo fa in modo blando: in questo caso non sappiamo se la risposta immunitaria indotta, di cui la presenza di anticorpi è una spia, sia davvero protettiva o se queste persone rischiano una nuova infezione. Per scoprirlo dobbiamo attendere i risultati dei numerosi studi epidemiologici in corso in tutto il mondo.

Non sappiamo se ci sarà una seconda ondata

Non sappiamo se ci sarà davvero una seconda ondata dell’epidemia anche se Istituto Superiore di Sanità e Organizzazione mondiale della Sanità insieme a molti altri scienziati con convinti di sì. «Una patologia come il Sars-cov-2, si può maggiormente diffondere e si può confondere con altre sintomatologie di tipo respiratorio in autunno e la famosa ipotesi della seconda ondata è collegata a questo, che, dal punto di vista tecnico scientifico è un dato obiettivo perciò con l’arrivo dell’autunno c’è una probabile possibilità di maggiore diffusione del coronavirus» ha dichiarato Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità . Secondo la virologa italiana Ilaria Capua e anche il direttore dell’Anestesia del San Raffaele Alberto Zangrillo una seconda ondata potrebbe non esserci.

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