Le visioni diverse delle due metà del Paese

C’è però anche un livello più innocuo e meno consapevole, ma più diffuso. C’è per esempio la nonchalance con cui ormai portiamo le mascherine, tra il mento e la gola, dove non servono. C’è il fastidio per ogni forma di controllo, dopo tanto autocertificarsi, e che fa rifiutare ad alcuni anche l’uso di una app di certo meno invasiva della privacy di un qualsiasi account su Facebook o acquisto su Amazon. C’è l’idea che il virus sia miracolosamente sparito, non solo indebolito o ridotto nella sua circolazione, ma proprio sparito, scomparso, sciolto al sole, e dunque tutte le precauzioni sarebbero diventate inutili. C’è perfino la nostalgia di chi pensa che si stava meglio quando si stava peggio, perché almeno il cielo della Lombardia era più pulito, le stragi del sabato sera sono state sospese per un po’ e abbiamo ricominciato a parlare con i figli, non potendo fare altro. C’è infine, a un livello più ancestrale, chi ha paura di ricominciare, e non vorrebbe tornare a sperimentare lo stress e la fatica della vita di prima. Chi ha sperimentato in questi mesi una sorta di «comunismo di guerra», in cui lo Stato si occupava di tutto, anche della sussistenza, e immagina che possa andare avanti così ancora per molto, distribuendo risorse che si immaginano infinite.

Se però nei prossimi mesi noi non saremo d’accordo su ciò che è davvero successo, sulle sue cause e i suoi effetti, difficilmente potremo essere d’accordo su come uscirne. E il rischio c’è, perché ognuno degli atteggiamenti qui descritti si ritrovano in questa o quella forza politica, nell’opposizione ma anche nella maggioranza, e ne vengono così confermati e rafforzati. Eppure, per comprendere quanto importante possa essere la coesione nazionale in un momento così, basta guardare a ciò che sta succedendo in questi giorni negli Stati Uniti.

Ogni crisi è anche un’opportunità, e tanti italiani saranno sicuramente in grado di sfruttarla, per rimettersi in carreggiata, per riprendere il cammino, o anche per inventarsene uno nuovo. Ma ciò che rende una comunità forte è la capacità di farlo insieme, provando a portare con sé anche coloro che sono usciti peggio da questo sommovimento sociale e morale. Ieri l’Istat ci ha detto che ormai le donne inattive, uscite cioè dal mercato del lavoro (si spera temporaneamente) sono quasi il doppio degli uomini; e che in un solo mese il calo degli occupati tra i contratti a termine è il doppio di quello tra i cosiddetti «garantiti».

Un tempo, per condannare le discriminazioni esistenti nei Paesi opulenti, si parlava di «società dei due terzi», nelle quali cioè un terzo era rimasto fuori. Oggi rischiamo di cadere in una società delle due metà. E quale Paese può sperare di risollevarsi e prosperare utilizzando solo la metà delle sue forze ed energie? Affermare questa consapevolezza di un destino comune, del bene comune, è molto più utile che negare la unicità e la portata della tragedia da cui stiamo, forse, uscendo.

CORRIERE.IT

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