Fabiana Dadone: «Smart working? Parole irrispettose. In ufficio uno su tre»
Lei ha chiesto di programmare rientri in ufficio. Vuol dire che si registra una certa resistenza al ritorno?
«Le
pubbliche amministrazioni negli anni non sono state accompagnate in
modo adeguato dalla Funzione pubblica. Dettare tempi, dare linee guida,
assumersi responsabilità, non scaricare sui più fragili gli errori:
credo che il senso dello Stato parta da qui. Si può dare autonomia alle
amministrazioni, ma questo non significa abbandonarle. In ogni caso, dal
10% di presenze in ufficio della fase 1 oggi siamo a circa il 30%».
Ma a regime quante persone resteranno in smart, quanti giorni si starà a casa e quanti in ufficio?
«Il
lavoro flessibile di tantissime amministrazioni, così diverse tra loro,
non può essere standardizzato in maniera univoca. Noi chiediamo almeno
di triplicare le percentuali pre crisi, ma enucleando anche le attività
eseguibili in modalità agile. Starà alle singole Pa questa
riorganizzazione, ma non va vista come un ammortizzatore sociale, quanto
come una impostazione aziendale improntata alla soddisfazione del
cittadino».
Lo
smart working funziona solo se legato alla valutazione della
performance, cioè se si lavora per obiettivi. Si dice da tempo ma in
concreto come si fa?
«Lo smart working è proprio
questo, è il lavoro focalizzato su obiettivi. Presuppone un cambio di
passo e chiede ai dipendenti, ma soprattutto ai dirigenti, grandi
capacità di organizzazione. Non è più facile, non sono vacanze. Se
abbiamo avuto gli stessi risultati rispetto al lavoro in ufficio,
significa che il dirigente ha capito esattamente di che cosa ci fosse
bisogno e il funzionario si è messo in gioco nonostante non avesse un
confronto diretto con i colleghi. Lo smart working è più difficile del
lavoro in ufficio, perché non tutti hanno questa flessibilità di
pensiero e serve una formazione continua».
Un’ultima cosa. Adesso si dice «smartabili» per indicare le attività che possono essere fatte da fuori ufficio. Va di moda, ma non le sembra è una parola orrenda?
«Non amo prendere posizione sul genere maschile o femminile di “ministro” e allo stesso modo non amo il dibattito sulle scelte lessicali di matrice italiana o inglese. Sono una persona pratica: chiamatela come vi pare, la sostanza non cambia. Abbiamo fatto un protocollo con l’accademia della Crusca sulla chiarezza del linguaggio amministrativo, lascio dirimere volentieri la questione a loro».
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