I vincoli di bilancio che non vanno ignorati
Nell’usare il denaro dei contribuenti per «salvare» le imprese bisogna quindi esercitare discrezione. D’altronde è il segnale che ci danno i mercati azionari: nel primo trimestre dell’anno il prezzo delle azioni di alcune compagnie di navigazione si è dimezzato mentre quello delle società hi tech è balzato. In altre parole, i prezzi di mercato di alcune aziende sono crollati perché gli investitori, temendo altre pandemie, le considerano esposte ad un rischio molto elevato (si veda Pagano, Wagner e Zechner, Disaster Resilience and Asset Prices, EIEF Working Paper, maggio 2020).
Quindi proteggere i lavoratori, sempre. Ma proteggere i posti di lavoro solo se si è ragionevolmente certi che le imprese in cui lavorano ce la faranno, altrimenti si gettano al vento i denari dei contribuenti. Quattro mesi fa non lo si sapeva, ora c’è più informazione e queste scelte non sono più effettuate al buio.
All’inizio della pandemia non esisteva un vincolo di bilancio. Appunto: costi quel che costi. Ma ciò non significa che i vincoli di bilancio siano scomparsi. Un conto è se lo Stato prende a prestito un euro per dare liquidità ad un’impresa per evitarne il fallimento: quell’impresa era profittevole prima del lockdown, tornerà ad esserlo dopo e continuerà a produrre risorse sufficienti per consentire allo Stato di rimborsare il prestito che l’ha salvata. Diverso è prendere a prestito un euro per tenere in vita un’impresa che non è profittevole, nè prima del lockdown, nè dopo. I tre miliardi di euro spesi per salvare Alitalia ne sono un esempio. Quel denaro lo Stato dovrà rimborsarlo, ma le risorse dovranno mettercele i cittadini.
Osserva il filosofo Carlo Lottieri (Il Giornale, 17 giugno): «La nostra è una società che, a tutti i livelli, è in attesa di aiuti pubblici che, il più delle volte, non ci sono e non arriveranno. Non soltanto la miseria è divenuta un fenomeno di massa, ma spesso siamo psicologicamente incapaci di reagire, dominati dall’illusione che debbano essere altri a risolvere i nostri problemi. Colpisce l’assoluta inconsapevolezza di un governo che continua a moltiplicare regole e misure a favore di questo o quel gruppo, quando invece sarebbe necessario comprendere le vere radici della povertà: un insieme di leggi e imposte che stanno progressivamente riducendo la produttività delle imprese. E quando il sistema produttivo si ferma, sono proprio gli ultimi a pagare il prezzo più elevato».
Insomma, una guerra o una pandemia attenuano temporaneamente i vincoli di bilancio, ma non cancellano le regole di un’economia di mercato. Questo vale anche per chi invoca la garanzia dello Stato sugli investimenti dei privati nel capitale delle aziende. Ha scritto il presidente della Consob, Paolo Savona, nella sua Relazione annuale:«Far beneficiare il capitale di rischio della garanzia statale (…) consentirebbe ai piccoli risparmiatori di godere di garanzie capaci di azzerare il rischio delle proprie scelte per un periodo predeterminato. Essi beneficerebbero dei vantaggi di una ripresa produttiva da parte delle imprese alle quali affidano i propri risparmi nel caso in cui gli investimenti avessero successo». In altre parole lo Stato dovrebbe garantire i guadagni degli investitori privati e farsi carico delle loro perdite. Una ricetta sicura per azzerare l’incentivo delle imprese a compiere scelte di investimento oculate. Un passo in più verso la decrescita felice.
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