Il contributo dei privati per curare il capitale umano
La pandemia ha mostrato quanto sia generosa (e disciplinata) l’Italia. Il 60 per cento dei cittadini ha fatto una donazione, alla Protezione Civile, agli ospedali, alle associazioni del volontariato. Piccole e grandi cifre. Perché qualcosa di analogo non può accadere per l’istruzione? Anche il capitale umano ha bisogno di cure. Il virus dell’impreparazione circola e mina la qualità del Paese, non solo della sua classe dirigente che decide e deciderà delle sorti di tutti. La sollecitazione del mio precedente intervento era rivolta soprattutto all’imprenditoria italiana, alla cosiddetta borghesia produttiva e ai ceti professionali che spesso mandano i figli a studiare all’estero. Ma credo che tanti altri, nel limite delle loro possibilità, pur tenendo conto delle drammatiche difficoltà di questo momento, siano sensibili al tema. Lo Stato non può farcela da solo, siamo sinceri. Ha bisogno dello spontaneo sostegno dei privati. Il diritto allo studio va incrementato e finanziato, accresciuta la possibilità degli studenti di accedere al credito bancario (solo l’1 per cento degli universitari in Italia ha chiesto il prestito d’onore).
Una grande campagna di borse di studio, finanziata con le donazioni dei privati, potrebbe farci risalire dagli ultimi posti della classifica per numero di laureati e dare un’opportunità in più, soprattutto ai figli delle tante famiglie che si impoveriscono. Un dovere civico, morale. Alcune proposte (in particolare i capitoli 79 e 80 del documento) sono state avanzate dallatask forcedi Vittorio Colao. Come, per esempio, un fondo speciale per il diritto alle competenze, soprattutto nelle discipline tecnico-scientifiche, o voucher che consentano agli studenti di scegliere gli atenei migliori sostenendo il differente costo della vita tra una città e l’altra. Un soggetto pubblico-privato, costituito ad hoc, potrebbe gestire nella massima trasparenza, insieme alla conferenza dei rettori, presieduta da Ferruccio Resta del Politecnico, il flusso delle donazioni. Attenzione al merito e al reale bisogno. Il finanziatore privato sarebbe ovviamente libero di scegliere a chi donare.
In Italia solo il 12 per cento degli studenti riceve un aiuto. L’Università di Bologna gode, si fa per dire, di contributi privati per poche migliaia di euro, pari allo 0,0004 per cento delle proprie spese. Inutile persino fare il confronto con quello che accade per gli atenei stranieri, e non parliamo solo di quelli più prestigiosi. La Bocconi, tanto per parlare di uno dei vertici dell’istruzione universitaria italiana, ha raccolto, nel 2018, donazioni per 10 milioni 795 mila 898 euro. Solo il 25 per cento va agli studenti. Le aziende sono 104 e gli individui 860. Si preferisce intestare un’aula o una cattedra anziché offrire una borsa di studio a uno studente bisognoso. L’aiuto al capitale umano del Paese potrebbe essere poi incentivato fiscalmente. Del resto si concede il credito d’imposta al 110 per cento per rifare casa ma la vita educativa di uno studente vale più di un infisso o un pannello solare.
La seconda proposta è diretta a offrire a giovani meno fortunati, che non studiano e non lavorano, a volte senza averne una colpa, un’opportunità di riscatto. Anche in questo caso con un maggiore coinvolgimento delle donazioni private, opportunamente incentivate. Ottantamila giovani chiedono ogni anno di fare il servizio civile universale e la loro domanda non viene accolta per mancanza di fondi. «Potrebbero essere impiegati — nota Riccardo Bonacina, fondatore di Vita — per dare una mano alle famiglie più povere anche a superare il digital divide ampliato dalla quarantena». Nel decreto Rilancio (34 del 2020) sono stati previsti solo 20 milioni, ovvero 4 mila giovani in più che si aggiungono agli attuali 30 mila. Un anno di servizio civile costa 5 mila 500 euro. Non stiamo parlando di cifre stratosferiche. Ieri, sul Sole 24 Ore, il neoeletto presidente dei giovani di Confindustria, Riccardo Di Stefano, ha lanciato l’idea di una «fase giovani». Perfetto. Ma non solo per aiutare chi vuol creare una sua start up. Le aziende che possono farlo «adottino» qualche giovane, che non studia né lavora, delle zone in cui operano. Offrano un contratto d’apprendistato, un’occasione, contribuiscano di più a curare questa gigantesca e purtroppo invisibile piaga sociale. Un piccolo grande investimento. Per tutti.
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