Siamo tutti spiati

Avrò avuto quindici o sedici anni e un giorno mia madre indicò un cassetto della stanza dove dormivo. Questo è tuo, disse, ci puoi fare quello che vuoi, metterci quello che vuoi, né io né tuo padre lo apriremo mai. Ci mettevo le sigarette che avrei fumato di nascosto, le copie delle lettere d’amore spedite alle ragazze, il libretto delle giustificazioni truffaldino per marinare la scuola (ogni tanto penso ai ragazzi di oggi, coi loro registri elettronici, la segnalazione delle assenze in tempo reale, i voti online un’ora dopo, penso al cassetto di mia madre estratto e sbatacchiato dalla tecnologia come in una visita notturna della Stasi, penso a quanto mi sia servito a crescere la violazione delle regole, nascondere un’insufficienza e studiare per recuperarla, decidere di non andare a scuola e assumermene il rischio e la responsabilità, penso ai nostri figli sterilizzati nel controllo digitale perenne, all’annullamento del loro libero arbitrio in nome della sorveglianza a fin di bene, all’ansimante ricerca della sicurezza a discapito della libertà, il vero onnivoro tratto del nostro presente).

Mia madre aveva capito che doveva esserci un angolo mio inviolabile, che il suo ruolo di genitore non coincideva con quello di sentinella, che ogni essere umano ha diritto a un piccolo indicibile, e soprattutto aveva colto la profonda differenza tra il sanzionare un errore e il prevenirlo col più implacabile piantonamento. Le società libere sanzionano l’errore (il reato), le società dispotiche lo prevengono con ogni mezzo, compresi quelli liberticidi.

Sorrido alla vista di mattacchioni in piazza o in tv a difendere la loro libertà dall’aggressione totalitaria di una mascherina. Sembrano quei balenghi che rigirano la saccarina nel caffè al culmine di un pasto di otto portate, sono (siamo) tutti tracciabili e rintracciabili via smartphone, videoripresi a ogni angolo di strada, scandagliati dagli algoritmi, l’ispezione totale è diventato programma politico nelle apparentemente trascurabili parole – trascurabili se non facessero parte di una strategia ancora dozzinale e abbozzata, dunque già pericolosa – del deputato a cinque stelle Manuel Tuzi, per il quale la riduzione dei parlamentari obbedisce all’esigenza di rendere “meglio controllabile” un’assemblea normalmente dedita al crimine. A questo si riduce la democrazia: a una convivenza fondata sulla guerriglia fra ladri e guardie (autoproclamate).

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