Zingaretti contro Zingaretti

Contrordine anche rispetto alla richiesta di una “svolta”, formalizzata nella prima direzione post lockdown – e chiesta, ancora ieri, dal più autorevole e influente dirigente di questo Pd, Goffredo Bettini – nell’ambito di un discorso consapevole del momento cruciale, perché “la destra lì”, rocciosa, incombente, pronta a cavalcare la paura e la risposta non può essere l’immobilismo, le casalinate, l’assenza di un’idea di paese. Richiesta evidentemente rimasta inevasa. E non reiterata, neanche dopo le carnevalate di Cernobbio, dove la presenza di Giuseppe Conte è rimasta agli atti, più che su una proposta di ricostruzione del paese, su battute che traducono frustrazioni politiche e tatticismi, dall’infelice uscita su Draghi all’inopportunità di una battuta sul bis di Mattarella. Anzi, il premio di tale performance sarà la presenza del premier alla Festa dell’Unità, sorpresa imprevista e gradita, nell’epoca della leggerezza delle parole e della grande indulgenza sulla serietà. In fondo, anche questo è un segnale su chi comanda davvero.

Insomma, dicevamo, contrordine, sui rischi del Governo, sul pericolo democratico, sulla necessità di cambiare rotta, come sul punto di fondo, perché nel famoso accordo di Governo c’era scritto, al famoso punto 10, che andava avviato “contestualmente” al taglio dei parlamentari un percorso di riforme costituzionali ed elettorale per bilanciarne gli squilibri. Anche la “contestualità” si è smarrita. Ecco, per carità, ha pure ragione Zingaretti, in un partito ammalato di governismo, correntismo, e tanti “ismi”, compreso l’immobilismo, che la croce delle responsabilità è collettiva, come ha ricordato sia per quanto riguarda la nascita del Governo sia sul taglio dei parlamentari, perché nessuno in Parlamento ha gridato allo scandalo più di tanto al momento del voto. Tuttavia la sequenza di posizioni prima espresse poi derubricate nella relazione successiva, come se non fossero questioni politiche saldamente ancorate a principi, convinzioni e visioni, diventa l’emblema di questa fase: un partito in definitiva disponibile a tutto che rinuncia, sia pur nell’ambito di una sostanziale lealtà di Governo, anche, vivaddio, a un po’ di lotta politica. Disponibile al taglio senza correttivi, ai trojan, ai decreti sicurezza, a tutti i dossier dei tanti “mai più”, “basta”, richieste di “discontinuità” infrantesi di fronte al muro di un alleato più solido nella difesa dei propri principi, pur essendo in crisi e con la metà dei voti.  

La direzione del Pd di oggi è questa, suggellata dalla trovata bizantina di un “voto per parti separate”: uno sulla relazione del segretario, con tanto di discussione statutaria sul meccanismo del “silenzio assenso” (roba dal mal di testa), e uno sull’ordine del giorno del referendum. Un voto “a prescindere” da un pezzo del discorso – davvero una novità a sinistra – che consente di dire che una parte di chi vota No, tipo Cuperlo o Zanda, non è uscito dalla maggioranza che sostiene il segretario. Il succo della cronaca di oggi, dunque, è che, in sostanza, Zingaretti non ha “militarizzato” il Sì ed è uscito dalla stretta mantenendo l’assetto interno, il che di questi tempi non è poco, considerata l’aria di Congresso strisciante che spira all’interno del partito. Il problema, ben più complesso, riguarda la storia più grande, la linea, si sarebbe detto una volta, il “come” stare nel Governo e nell’alleanza, a che prezzo, il chi guida – chi ha l’ambizione di farlo in futuro – e, con esso, il paese. Perché la narrazione che qualunque compromesso è necessario pur di arginare il fascismo, anche un Governo “a prescindere” dalla realtà e da ciò che non fa, non tiene più. L’emergenza è altra e più grande di Salvini.

L’HUFFPOST

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