Elezioni regionali: Salvini non sfonda più, Meloni non ancora

E dunque, a destra la linea del Piave diventa non chi ha vinto bensì chi ha perso di meno. Salvini è azzoppato: il suo progetto di Lega Nazionale sul modello lepeniano non sfonda, i toni responsabili e l’assenza di incursioni al citofono non lo premiano. A Nord, l’unico pronostico rispettato è quello che vede Zaia oltre il 70% – al momento intorno al 75 – con la sua lista personale, pur “scippata” dei pezzi più pregiati come consiglieri e assessori, intorno al 47%, vale a dire il triplo delle liste ufficiali del partito boccheggianti intorno al 15%. Un plebiscito atteso ma non per questo meno doloroso per la segreteria nazionale, per quanto Fontana si affretti a negare dualismi. A Sud, l’apporto elettorale delle truppe padane è poco influente. Chissà cosa ne dirà Umberto Bossi, e con lui la “vecchia guardia” che non avrebbe cambiato il nome del partito né, tantomeno, l’obiettivo della secessione. Mentre l’ex ministro Gian Marco Centinaio sposta l’attenzione – e lo sconforto – sul referendum: “Peccato per la sconfitta, tanti dirigenti della Lega erano per il No”. Troppo poco per essere considerato una sfida al Capitano, ma quanto di più vicino ad una critica alla sua linea un partito “dirigista” come la Lega abbia espresso negli ultimi anni.

Da parte sua Giorgia Meloni, dopo una campagna elettorale e referendaria all’insegna della cautela, decide di dare la zampata. Prima circoscrive il campo da gioco: “Vittoria! Le Marche si tingono di Tricolore”. Poi mette fieno in cascina: “Da nord a sud FdI è l’unico partito che cresce”. Si è giocata meno, ha meno da rimpiangere, il banco non se l’è preso, ma tant’è. “Siamo stati determinanti per la vittoria al referendum. Vogliamo la riforma presidenziale. Ma solo un Parlamento legittimato dal voto potrà farle”. Sullo sfondo resta Forza Italia, che galleggia in un range tra il 6 e il 7%: non c’è la paventata disfatta – il fuggi fuggi sarebbe scattato sotto il 5% – ma certo il partito berlusconiano resta marginale in questa partita e i suoi parlamentari stano già riflettendo sul futuro.

Che, al momento, non appare radioso. Al punto da far mettere in freezer gli entusiasmi per la vittoria del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari – meloniani esclusi – e stroncare le prime esortazioni a favore del “voto subito”. Alle elezioni, infatti, con quale gerarchia di coalizione si andrebbe? E con quale candidato leader? Salvini è spompato, stanchissimo dopo una campagna elettorale in cui – gli va dato atto – non si è fisicamente risparmiato, insidiato dal “Doge” e dai suoi legami con il mondo produttivo e imprenditoriale nordista, accerchiato dagli scandali finanziari, atteso dalle inchieste e dai processi. Meloni ha mancato l’occasione di invertire il peso dei due partiti – o almeno riequilibrarlo – e le toccherà pazientare ancora un po’. Silvio Berlusconi, nonostante l’età e le ultime vicissitudini di salute, mantiene la presa su una Forza Italia di nicchia ma decisa a farsi valere sulle prossime battaglie (in primis la legge elettorale).

“Grazie ai milione di italiani che ci hanno dato fiducia – twitta Salvini in serata – Da domani Lega e centrodestra saranno alla guida di 15 regioni su 20. E anche dove non ce l’abbiamo fatta, tutti al lavoro con un solo obiettivo, aiutare, proteggere e far crescere la nostra bellissima Italia”. Un messaggio ecumenico, dialogante e persino mite. Speculare a quello di Nicola Zingaretti, che però al Nazareno non riusciva a nascondere – ed erano solo le cinque – un grosso sorriso. Da domani per il Pd e per il governo si aprirà la partita – non facile – della “stagione di riforme”, della legge elettorale, delle rivendicazioni di chi vorrà pesare di più. Nel centrodestra, invece, si aprirà la resa dei conti.

L’HUFFPOST

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