La fase nuova di Zingaretti e quella di Conte (che però assomiglia a quella vecchia)
Ecco, la fase nuova è questo, adesso che è archiviato il tema del “se dura” e l’inscalfibile orizzonte temporale del governo e della legislatura è fissato al 2023. Il tema è il “chi e come guida”. Insomma, ricorrendo a un termine antico, l’egemonia. C’è, in questa istantanea di giornata una diversa interpretazione del voto. Quella classica del segretario del Pd, che vede nel risultato le ragioni di una nuova e più incisiva iniziativa del suo partito, rappresentante di istanze a cui dare sbocco politico e motore di una coalizione da ricostruire. Quella del premier – ora va di moda il termine “post ideologico” – che vede nel risultato dei governatori lo specchio della sua personalizzazione, di una tendenza già presente nella politica italiana che il Covid ha portato al parossismo. È il protagonista che conta si chiami Conte o Zaia, Toti, Emiliano o De Luca, che non affida il suo destino al sistema dei partiti che lo sostengono, anzi che quel sistema lo considera più un impiccio che una risorsa. Proprio le dichiarazioni dei neo governatori sono, in tal senso, esempi da manuale della nuova politica. De Luca, il cui elettorato solo per un quinto aveva votato Pd alle Europee, che si definisce “oltre la destra e la sinistra”. Emiliano che ringrazia la “marea di leghisti” che l’ha votato, annuncia che difenderà Conte “con le unghie e con i denti”. In sintesi, la personalizzazione ai tempi del Covid, in cui la gente ha votato per la stabilità e per le figure che hanno gestito l’emergenza.
La nuova fase è tutta qui, nel rapporto tra il “governatore dei governatori” e i partiti, in cui il primo teme che, accettando lo schema della coalizione, può restare impaludato, non tanto per le garbate richieste del Pd, poste senza diktat, ricatti e minacce, quanto piuttosto perché conosce la portata della destabilizzazione insita nella deflagrazione dei Cinque stelle. Perché è chiaro quel sta accadendo nel Movimento dilaniato tra un gruppone governista, con i suoi confliggenti protagonismi tra Fico e Di Maio e il gruppo identitario e diciamo così, autonomista di Alessandro Di Battista, magari meno forte in Parlamento ma che nel paese intercetta un sentimento diffuso nella misura in cui chi ha votato Cinque stelle, a questo giro, è proprio chi non vuole l’accordo nel Pd. Parliamoci chiaro: il Movimento di una volta, passata la riforma costituzionale, avrebbe chiesto lo scioglimento del Parlamento il minuto dopo, al grido di “mandiamo a casa gli abusivi”. Questo Movimento sa che, in questa eventualità rimarrebbe vittima delle proprie macchinazioni. Il rinvio dei dossier che questa deflagrazione possono renderla ingovernabile è, appunto, un modo per starne fuori e al riparo, col rischio che il nuovo film assomigli al vecchio.
L’HUFFPOST
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