La qualità negata a scuola
di Ernesto Galli della Loggia
Che significa «investire nell’istruzione»? Che significa in concreto questa formula che sentiamo ripetere come un mantra da settimane, specie da quando è all’ordine del giorno la famosa «ripartenza del Paese» sollecitata dal luccicante miraggio dei forzieri di Bruxelles? Investire nell’istruzione va bene, ma in che cosa in particolare? Nel diritto allo studio? Nell’edilizia? Nel Mezzogiorno? Nella riduzione dell’abbandono scolastico? Nelle retribuzioni degli insegnanti? Nel favorire corsi e sedi d’eccellenza? Nella digitalizzazione, nel promuovere all’università un settore disciplinare piuttosto che un altro? Nessuno si cura di specificarlo: il che come si capisce è la migliore premessa per la solita distribuzione di soldi a pioggia di cui noi italiani siamo specialisti. Riempirsi la bocca di chiacchiere e concepire progetti grandiosi per poi alla fine distribuire un mare di mance che lasciano le cose come prima.Invece dovremmo preliminarmente chiederci: siamo davvero sicuri che in vista di una buona scuola (mi occupo solo di questa, non dell’università) il problema principale, quello da cui ogni altro dipende, sia quello finanziario? Non lo credo. Più soldi sono necessari, necessarissimi per mille ovvie ragioni, ma la questione decisiva è un’altra. Sono gli insegnanti. Sono infatti loro la scuola. La scuola in definitiva è la loro capacità e dedizione, la loro qualità, non i programmi, i laboratori, le attrezzature, l’«inclusione» o quant’altro. E dunque la crisi dell’istruzione scolastica dipende in larga misura dalla crisi della loro figura e del loro ruolo. In una parola dalla fine della loro centralità.
Negli ultimi decenni la peculiarità della figura dell’insegnante, di chi ogni mattina entrando in classe e chiudendosi la porta alle spalle affronta la scommessa cruciale: riuscire ad avviare delle giovani menti alla conoscenza e alla vita, oppure ridursi al rango di un impiegatuccio qualsiasi, questa peculiarità è andata scomparendo.
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