Vaticano-Cina, cosa c’è dietro al dialogo

Il punto è che forse a Roma non si è prestata sufficiente attenzione, però, a un paio di grandi differenze che la situazione attuale presenta rispetto a quella di alcuni secoli fa. Differenze che rischiano di trasformare un audace tentativo di evangelizzazione in una patetica resa di fatto, e quindi in un gigantesco regalo, ai governanti cinesi.

La prima differenza è che cinque secoli fa la Chiesa, pur dopo il colpo ricevuto dalla Riforma, era pur sempre una imponente organizzazione politico-spirituale straripante di energia con alle spalle alcune delle più importanti potenze mondiali. Data la situazione dell’epoca l’avventura dell’evangelizzazione nei Paesi asiatici al massimo poteva fallire (come difatti fallì) ma non poteva avere certo alcun genere di ricaduta negativa. Oggi invece la situazione è ben diversa. Oggi la Chiesa cattolica appare un organismo privo in certo senso di un effettivo retroterra. Nell’area del suo insediamento storico (il mondo occidentale) essa infatti subisce da tempo una caduta verticale di adesioni, di prestigio nonché di sostegno economico (un fattore non proprio irrilevante). Inoltre è per più versi organizzativamente allo sbando e mostra un’evidente decadenza qualitativa del suo, chiamiamolo così, personale direttivo; oltre a soffrire, com’è noto, di laceranti divisioni al proprio interno.

La seconda enorme differenza è che nel suo proposito evangelizzatore rivolto alla Cina la Santa Sede non si trova più di fronte al Celeste Impero, all’organismo arcaico, debole e sostanzialmente inoffensivo di un tempo (più o meno analogo a quelli che tuttora le capita d’incontrare in molte contrade del mondo), bensì allo Stato forse più potente, spregiudicato e deciso del pianeta, quello più deciso ad affermare le proprie mire imperiali. Non solo: si tratta anche di uno tra gli Stati il cui governo si mostra più incline a usare qualsiasi mezzo, compresa la violenza (a seconda dei casi più brutale o più tecnologicamente raffinata) per conseguire i propri scopi; e tra questi mezzi quello in certo senso più difficile da contrastare: la corruzione sottobanco dei rappresentanti delle controparti.

Pechino ha un ovvio interesse ad un accordo con Roma, soprattutto per ragioni di immagine. Da un lato per mostrarsi aperto e tollerante e così coprire la sua politica sempre più ferocemente persecutoria del buddismo tibetano e dell’islamismo uiguro (nonché, sebbene in forme non conclamate, pure del cattolicesimo cinese non «patriottico» e cioè fedele a Roma), dall’altro per guadagnarsi un accredito importante presso le masse cattoliche dell’Africa e dell’America Latina in vista dei propri disegni di espansione mondiale. Assai più difficile, invece, è capire quale sia l’effettivo interesse a un accordo con Pechino da parte della Chiesa cattolica. Davvero la Santa Sede può credere che uno Stato e un governo come quelli cinesi siano disposti ad assicurarle la libertà di culto che essa ha sempre rivendicato? A rispettare la fede cristiana? A non intromettersi nelle faccende interne della Chiesa, a non interferire nella nomina dei vescovi, a non controllare in un modo o nell’altro le sue attività?

Per Roma tutto il guadagno sembrerebbe doversi risolvere, dunque, esclusivamente in un risultato d’immagine privo di qualsiasi sostanza. In una mossa ad effetto utile solo a nascondere la propria condizione storica di crisi. Nell’epoca del tramonto dell’Occidente anche l’evangelizzazione cattolica sembra ridursi fatalmente a espediente politico.

CORRIERE.IT

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