Fine di un’illusione (di Marco Damilano)

Il racconto feriale degli italiani non riguarda più, soltanto, la tensione provocata dalla presenza del virus, ma l’ancor più concreta invasione di ogni angolo di spazio, nella scuola, nel lavoro, tra le pareti di casa, la richiesta di non ricevere «persone non conviventi in numero superiore a sei». La sensazione di aver perso tempo prezioso e di aver sprecato risorse importanti: i 2,5 miliardi di euro non sfruttati al meglio per far partire i piani di emergenza (metà erano per il 2020, l’altra metà per il 2021), di cui scrive Gloria Riva, con il solito rimpallo di responsabilità tra regioni, Asl, medici di base e ospedalieri, sono già un prezzo troppo alto che il nostro Paese paga all’inefficienza, alla sovrapposizione delle competenze, all’incapacità di programmazione, al di fuori dell’emergenza.

C’è un’altra emergenza che dovrebbe allarmare. Il Fondo monetario internazionale corregge al ribasso le stime sulla contrazione del Pil italiano 2020 (dal -12,8 di giugno al -10,6), ma comunque superiori alle previsioni del governo, mentre il rimbalzo del 2021 si fermerà al 5,2 contro il 6 calcolato da Palazzo Chigi e da via XX Settembre. Ma in un anno così è il pericolo minore, per quanto incredibile possa sembrare. Per l’Italia, per il sistema Paese e per la politica, questi sono i giorni del Grande Risveglio, dopo i sogni dei mesi passati. Il sogno di essere usciti dalla pandemia, ovviamente, irrealistico dato che tutti gli altri paesi europei a partire da Francia e Spagna precipitavano nell’incubo. Il sogno di aver costruito con i due mesi di lockdown marzo-maggio 2020, nel mezzo di una tragedia epocale, un modello di pronto uso per tutti i paesi aggrediti dal virus, soprattutto per quelli europei e occidentali: l’esperimento unico, in effetti, di un intero paese a saracinesche abbassate, isolato in casa, senza sospensione delle garanzie democratiche, senza una violenza di Stato ad abbattersi sui ribelli. Il sogno, infine, di aver meritato il premio per tutto questo sacrificio e per i 36mila morti, tra loro i poveri corpi di Bergamo trascinati via sui camion militari nella notte, l’immagine simbolo globale della pandemia: i 209 miliardi di euro del Recovery Fund che qui si fatica a chiamare Next Generation Eu.

Non era soltanto, in questo caso, abilità comunicativa degli stregoni mediatici di Palazzo Chigi. Il premier Giuseppe Conte si è totalmente identificato con l’emergenza che gli ha dato una missione indiscutibile, un obiettivo, una ragione di esistenza politica.

Durante la prima ondata c’era la concitazione, la tensione, era visibile il terrore di una classe dirigente di essere travolta e di veder associato il proprio nome sui libri di storia alla più grave catastrofe umanitaria del secolo. In questa seconda ondata è impossibile non scorgere in senso positivo lo scopo di Conte di infondere una maggiore sicurezza, ma non può essere separato dal dovere di non sconfinare nella sicumera o nella confusione delle lingue che è ripresa prepotente negli ultimi giorni. Ma non c’è soltanto l’ansia da prestazione comunicativa tipica del nostro tempo. Era tutta la società italiana che si è cullata nella illusione che tutto ciò che veniva raccontato fosse vero. Per sconfiggere, anche, la Bestia salviniana e sovranista, la contro-narrazione fallimentare della destra.

Il Risveglio è brusco, feroce. Gli italiani sono alle prese con i numeri di ogni giorno: cifre dei contagi, giorni di attesa per il tampone, settimane di quarantena, corse del trasporto pubblico annullate, parenti da invitare in casa. E la maggioranza balla sui numeri al Senato, di fronte alla erosione dei Cinque Stelle.

Oggi ci troviamo di fronte a due forme di storytelling, l’Italia-modello del mondo occidentale di Conte e l’Italia assediata da nemici interni e esterni del duo Salvini-Meloni, che si infrangono sulla realtà. Le cronache raccontano tutt’altro. E dai corridoi ministeriali arrivano resoconti di genere opposto a quello che sarebbe servito in queste settimane di preparazione del Recovery Plan: confusione di competenze, corsa ad accaparrarsi i migliori progetti (altrui), vecchi merletti burocratici e arsenico, ovvero il veleno della delusione, per chi qualcosa da dire sul futuro dell’Italia lo avrebbe davvero ma non trova chi lo possa ascoltare.

Il risveglio riguarda anche la spaccatura più tradizionale del Paese. Il virus coinvolge anche le regioni del Sud e la Capitale, a differenza dei mesi passati, ma è ancora il Nord il banco di prova del Paese, non solo della maggioranza di governo ma anche dell’opposizione. Salvini, in questo momento, guida un partito che ha le radici al Nord ma ha la testa romana, intesa come girotondo di alleanze, salotti (Marcello Pera rivela di aver conosciuto il leader leghista su presentazione di Denis Verdini), studi televisivi, ma la divisione che attraversa il partito è non solo ideologica ma anche territoriale: tra il “romano” Salvini e Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia, portatori di altri valori e interessi, strettamente interconnessi con l’Europa. Ancora di più, però, riguarda il partito-motore della maggioranza, il Pd, che sta cercando il linguaggio necessario per rivolgersi ai territori che con l’eccezione dell’Emilia Romagna e di alcune città importanti (Milano, Bergamo. Brescia) sono interamente governati dal centro-destra, qualcosa di più di una formula politica, un sentire comune che può essere rovesciato ma che richiede lavoro, cura, intelligenza politica, credibilità.

Si può sospendere la politica, per via dell’emergenza. Si poteva immaginare che il sogno di essere usciti indenni dalla pandemia diventasse la nuova via italiana al governo. Il Risveglio fa male a tutti, inquieta. Tornano a essere necessari coesione, unità, responsabilità, le parole-chiave del presidente Mattarella. Ma intanto non resta molto più tempo per non essere costretti ad ammettere che il capitale umano e politico incassato in questi mesi era solo un’illusione. E tornare al virus dell’inaffidabilità, che l’Italia conosce maledettamente bene.

L’ESPRESSO

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