«Recovery, stop ai veti». Ue pronta ad andare avanti senza Ungheria e Polonia

di Antonio Pollio Salimbeni

Non sarà il vertice della resa dei conti, ma certamente del pressing politico sui due leader sovranisti di Ungheria e Polonia per evitare una profonda rottura nell’Unione europea. Tutti i fari sono puntati sulla videoconferenza di oggi (dalle 18) dei capi di Stato e di governo: non è attesa una decisione definitiva, ma delle indicazioni i 27 dovranno pure darle. Sul tavolo c’è il veto annunciato da Budapest e Varsavia sugli atti per il bilancio 2021-27 che richiedono l’unanimità, ma in realtà il loro bersaglio è l’accordo raggiunto da Consiglio ed Europarlamento sul legame fondi Ue-rispetto dello Stato di diritto. Per Ungheria e Polonia, da tempo sotto tiro proprio su indipendenza della magistratura e attacchi al pluralismo dei media, è un fronte sul quale i governi in carica, nazionalisti, in fondo euroscettici e fautori di un’Europa-sportello bancario, intendono far valere la propria sovranità esclusiva anche se in netto contrasto con i valori generali dell’Unione. Ieri si è aggiunta la Slovenia in un modo però ambiguo. APPROFONDIMENTI

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Il premier di centrodestra Janez Jansa contesta l’accordo perché prevede «meccanismi discrezionali basati non su un giudizio indipendente ma su criteri politicamente motivati». Però non parla di veto. Per dire il personaggio: a conteggio dei voti americani in corso si congratulò con Donald Trump via Twitter per «il meritato trionfo finale». La partita prende toni sempre più aspri. Il premier polacco Morawiecki parla di «oligarchia europea che punisce i più deboli»; Orban dice: «Si vuole ricattare chi si oppone all’immigrazione»; infine Jansa evoca il regime comunista. Come se ne uscirà ancora non è chiaro. Tra le estreme conseguenze il ritardo del nuovo strumento anticrisi: per emettere i 750 miliardi di obbligazioni anti Covid occorre il bilancio Ue adottato e l’ok all’aumento dei massimali di risorse proprie a garanzia, appunto, dei prestiti sul mercato. Entrambe le decisioni richiedono l’unanimità, la seconda pure le ratifiche nazionali. Tutto deve essere chiuso entro l’anno. Un leggero ritardo non implica automaticamente un ritardo anche del Recovery Fund: i governi devono presentare i piani entro metà aprile, gli esborsi sono previsti non prima dell’estate. Ma un blocco manderebbe tutto all’aria.

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LO SCOGLIO
Il «no» ungherese e polacco ha un tono guerresco e il profilo di un bluff: la quota polacca degli aiuti anticrisi è di oltre 70 miliardi; la quota ungherese poco meno di 20. In rapporto al Pil nazionale sono quote più elevate di quella dell’Italia, in termini assoluti il maggiore beneficiario. Dal 2004 i fondi Ue per tutto l’Est costituiscono una potente leva della crescita interna. Il meccanismo che condiziona l’accesso alle risorse Ue al funzionamento degli organismi indipendenti di controllo contabile e alla garanzia di una magistratura indipendente, senza i quali gli interessi finanziari Ue possono essere negati o messi seriamente a rischio, la maggioranza per procedere c’è. Ciò vuol dire che da gennaio, potrà essere utilizzato.

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Polacchi e ungheresi lo sanno benissimo. La pressione politica su di loro è forte: in primo luogo è la cancelliera Angela Merkel a esercitarla. Al Senato francese il responsabile degli Affari europei, Clément Beaune, annuncia che si stanno discutendo «soluzioni pratiche» per superare lo scoglio, compreso «il modo in cui avanzare senza i Paesi che bloccano» gli accordi. Viene evocata in sostanza l’idea di procedere a 25 (o a 24).
Ipotesi complicata: il fondo anticrisi può essere anche frutto di un accordo intergovernativo, ma occorre un trattato che non si improvvisa; il bilancio Ue non può esserlo ed è quest’ultimo che deve garantire l’emissione obbligazionaria. Un rompicapo. Dal Parlamento europeo arriva un segnale molto chiaro, forse dirimente: la trattativa sul tema Stato di diritto è risolta. «Le intese raggiunte costituiscono un accordo chiuso, non possono essere riaperte». Questo il secco messaggio della conferenza dei presidenti del Parlamento ai Ventisette. Senza il voto del Parlamento non si va da nessuna parte.

IL MESSAGGERO

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