Covid, quando finirà? Le tappe (e gli ostacoli) per uscire dall’incubo



a) A livello globale, Covid-19 disegna un unico flusso (un’unica «ondata») il cui andamento si misurerà negli anni, dall’outbreak (non necessariamente a Wuhan, come indicato qui) al suo progressivo diradarsi. L’unico precedente possibile, al riguardo, è l’«influenza russa» del 1889-95, che studi recenti riconducono con buone probabilità proprio a un coronavirus, HCoV-OC43: ma l’arco molto esteso di quella pandemia (6 anni, anche se il periodo di maggior pressione è nel primo biennio) è dovuto anche all’assenza di terapie efficaci e vaccini, fattori che determineranno un più rapido addomesticamento di Sars-CoV-2, una sua più veloce «riduzione» — proprio com’è avvenuto per HCoV-OC43 — a virus respiratorio di entità lieve-media;

b) Nel contiuum dell’evento pandemico le variazioni di durata e intensità viaggiano nel tempo e nello spazio, determinando una sorta di turn-over che David Quammen paragona alla «ghirlanda luminosa di Natale» (analogia mai così appropriata), con l’on/off più lento dove le popolazioni sono più distanziate e la luminosità più forte o più blanda a seconda della consistenza del contagio. Il che scioglie un equivoco diffuso e persistente, secondo cui Paesi come gli Usa non avrebbero quasi avuto discontinuità tra ondate, mentre altri (come quelli europei presi singolarmente) sì: il paragone andrebbe invece svolto, ovviamente, in modo omogeneo, a livello continentale (o — al limite — tra Stati americani e europei), ottica in cui l’andamento pandemico europeo mostrerebbe una «sua» continuità, anche se meno marcata di quella americana, una «ghirlanda» a sua volta quasi sempre accesa, dovuta al turn-over delle aree: vedi il contrasto, in estate, tra il quasi azzeramento «occidentale» e l’improvvisa impennata dell’est ex-sovietico.

c) Un corollario-chiave della «ghirlanda» spiega invece le asincronie delle «emergenze» tra aree più perimetrate, come dimostra proprio il quadro italiano. Tendenzialmente, aree più colpite nel primo flusso (nella prima «ondata») lo sono meno nelle recidive (vedi Bergamo o Lodi) e viceversa (il distretto di Monza-Brianza o il Veneto tout court). E questo per un evidente acquisizione o meno di una (parziale) immunità di gregge. Dove, invece, tassi di contagiosità/mortalità restano alti nei diversi flussi (nelle diverse «ondate»), incidono fattori strutturali come l’alta densità di popolazione, l’anagrafe e le malattie pregresse (i molti anziani), la connettività industrial-commerciale, e così via; fattori che devono essere presenti simultaneamente (il Veneto, ad esempio, non ha la demografia lombarda né per numero, né per densità).

2. L’importanza della genetica

Tutto questo senza dimenticare un macro-fattore al momento in ombra per deficit di dati e conferme: la genetica, da approfondire sui due versanti.

Quello dell’agente patogeno, con lo studio delle mutazioni più significative per break di contagiosità secondo aree e fasi pandemiche, come l’ormai nota D614G (stessa sigla di un lied di Schubert) o la recentissima N501Y — la più significativa delle 23 nella variante VUI202012/01 — cui si riferiva in conferenza stampa Boris Johnson.

E quello dell’ospite umano, con la focalizzazione della maggiore suscettibilità a Sars-CoV-2 sia a livello di genetica delle popolazioni (l’aplogruppo R1b e in particolare il subclade R1b-S116, di remota origine iberica e diffuso in aree già «predisposte» sul piano ambientale come Castiglia, valli bergamasche, Fiandre o Brabante del nord, a completare una «tempesta perfetta») che di tratti individuali: vedi la recente scoperta sull’incidenza di un gene come IFNAR2, la cui disfunzionalità inibirebbe la produzione di interferone nella prima fase della risposta immunitaria, esponendo il soggetto a sviluppare una forma più severe della patologia.

Conferme (o affinamenti) in questa direzione potranno contribuire a rimodulare tante risposte a domande assillanti: in quanto aplogruppo del cromosoma Y, R1b potrebbe essere tra i cofattori decisivi nella maggior mortalità tra pazienti maschili; e in quanto diffuso in tutte le aree ispaniche e anglosassoni, potrebbe aiutare a spiegare i primi posti della «classifica» Johns Hopkins. Tra questi, il drammatico primato dell’Italia tra i Paesi più colpiti (in realtà discutibile, se i dati spagnoli rivisti dall’ Ine — il loro Istat — hanno «decriptato» 29.00 decessi tra morti in casa e RSA), non riconducibile solo ai fattori contestuali citati, a morfologie sociali (i forti contatti familiari intergenerazionali) o a disfunzioni sanitarie strutturali, dai tagli decennali al dissesto della medicina territoriale (si vedano qui i pezzi di Marco Imarisio e di Laura Cuppini).

3. Il «collo di bottiglia» delle festività (e della stagionalità)

Tra le implicazioni del continuum ce n’è una che introduce direttamente ai prossimi giorni: il rapporto con la stagionalità, cioè la pressione ambientale che incide, ancora una volta, sia sull’agente patogeno (attraverso la sensibilità a temperatura, escursione termica, umidità relativa o RH) che — simmetricamente — sull’ospite umano, la cui maggiore «vulnerabilità immunitaria» in certi periodi (il passaggio dall’estate all’autunno) è dimostrata da alterazioni di indicatori come la melatonina o la vitamina D.

A cornice del quadro, com’è noto, il contrasto spazi aperti/ spazi chiusi, coi primi decisivi nella dispersione di droplet e aerosol. È anche questo rapporto, infatti, a spiegare come la pausa estiva — la «brezza» del vento nel continuum pandemico, da qualcuno scambiata per un epilogo — sia durata per un tempo relativamente lungo (4/5 mesi), con la controprova plastica — a proposito dell’incidenza degli spazi chiusi — fornita da situazioni anomale come quelle delle discoteche e dei luxury sardi, tra i pochi focolai del periodo.

A spiegare, quindi, perché tra il primo e il secondo flusso (tra la «prima e la seconda ondata»), l’«intervallo» sia stato molto più esteso di quanto potrebbe essere quello tra la «seconda» ora in corso (calante o in estinzione) e un’eventuale «terza». Potrebbe anzi crearsi una pulviscolarità nebbiosa, in cui sarebbe difficile distinguere l’ultimo strascico dell’una e l’innesco dell’altra.

Certo, in teoria è possibile che l’andamento intrinseco del virus distanzi la «terza ondata». Possibile, ma (per i motivi esposti) improbabile. E nell’ottica di quella sovrapposizione-indistinzione tra le ondate (o, almeno, della loro prossimità) sarebbe quanto meno imprudente un vero allentamento della profilassi epidemiologica. Anche perché va sempre tenuto della possibile incidenza delle mutazioni, come quella «inglese» (più a livello di trasmissibilità che di letalità).

Tra la prima e la seconda «ondata», un calo di tensione è stato non solo comprensibile ma in larga parte giustificato; con qualche eccezione (i citati esempi sardi o qualche viaggio all’estero in luoghi in fase critica) non c’è un vero nesso tra comportamenti irresponsabili dell’estate e l’innesco-irradiazione del nuovo flusso pandemico.

Quell’innesco, secondo diversi studi, risponderebbe a precisi timing ambientali (secondo l’epidemiologo francese Martin Blachier a un evento-meteo break tra 29 settembre e 1° ottobre) e a precise dinamiche di contagio (un focolaio partito da lavoratori agricoli spagnoli, peraltro associato a una nuova mutazione del virus, 20A.EU1). In quell’«intervallo», semmai, colpisce il letargo istituzionale a ogni livello, governativo (il lavoro deficitario su terapie intensive, assistenza-USCA domiciliare, riassunzione di infermieri, riorganizzazione dei trasporti rispetto a scuola e lavoro) che regionale (il caso-monstre dei governatori lombardi e della mancata copertura del vaccino antiinfluenzale, le cui conseguenze — in potenza drammatiche — sono state finora «velate» dalla profilassi collettiva anti-Covid).

E colpisce, semmai, il ritardo oggettivo nel leggere/anticipare la «terza ondata»: le famose 3 settimane perse dal 12 ottobre al 3 novembre, dal giorno dell’impennata-break a quello degli automatismi cromatici.

Ora, invece, la scelta di un lockdown più o meno radicale è di fatto obbligata, tanto da essere stata adottata da molti Paesi europei: pena una risalita di flusso (una «terza ondata») che ri-eserciterebbe sugli ospedali, da gennaio in poi, una pressione intollerabile.

Digressione – Il Natale e la Spagnola

Qui, il precedente istruttivo è la «metrica» della Spagnola, che pure, ricordiamo, non è un corona ma un orthomyxovirus influenzale (sempre a Rna). Anche in quel caso — con cadenze un po’ sfalsate rispetto a Covid-19 — si registrano tre- quattro «ondate», con un intervallo più lungo tra la prima e la seconda (la più devastante, col virus mutato e più letale) che tra la seconda e la terza, per gli stessi motivi tra stagionalità, biofisica del virus, condizioni immunitarie dell’ospite. E anche in quel caso, è salita la fibrillazione prenatalizia, peraltro a complemento di altre celebrazioni a rischio-assembramento: le feste popolari per l’Armistizio bellico (11 novembre) e il Thanksgiving, il Ringraziamento (il 28), che viene officiato in molti Stati con modi pantagruelici, nonostante il Paese conti già 300.000 morti (arriverà, a fine pandemia, a 675.000). Il contesto, rispetto a oggi, è ovviamente molto diverso, dato che le «bombe biologiche» di quegli assembramenti si assommano a quella più consistente del «rientro natalizio» di marinai e soldati, fattore solo in parte compensato dalla stanzialità della maggioranza degli americani, che trascorrono il Natale in casa. Ma comune è l’amletismo di fronte al perenne dilemma pandemico «health or wealth», acuito dall’avvicinarsi del Natale.

Agli antipodi — un po’ estremizzando — si possono citare due esempi. Quello negativo è Seattle, dove il Commissario della Salute J.S. McBride — esemplare nella gestione fino all’Armistizio escluso — è costretto a cedere alle pressioni del business e della politica per «riaprire» dal giorno successivo, 12 novembre. L’establishment e larga parte della cittadinanza credono infatti che 5 settimane di lockdown abbiano estromesso il patogeno: come recita l’adagio dominante, «Influenza ban completely off». Anche McBride, dopo l’irritazione iniziale, è convinto (o meglio «si convince») che qualche indicazione cautelare basti a contenere nuove fiammate: ma le riaperture totali (negozi dalle 9 alle 17; scuole di ogni ordine e grado; sale da biliardo e da ballo; teatri, con spettacoli popolari di vaudeville puntualmente «sold out») covano una devastante risalita di contagi e decessi. I dati complessivi, sul lungo periodo, daranno ragione a McBride, con Seattle messa meglio di tante altre città americane: ma quello dei decessi post-natalizi non solo nel capoluogo (metà dei 5000 decessi dello Stato di Washington concentrati nel gennaio ‘19) offre la misura di quelle riaperture avventate per timing e portata.

L’esempio, positivo, ancora una volta, è quello di Max Starkloff, il Commissario di Saint Louis. Se altri Commissari vengono (a torto o ragione) demonizzati, Starkloff è forse oggetto agiografia infondata, dato che anche lui ha commesso errori e ceduto, in certi momenti, a pressioni economico-politiche. Ma la gestione (la sequenza) del periodo prenatalizio (da seguire al ralenty) è altamente indicativa del suo «fiuto» epidemiologico. Anche lui lascia celebrare l’armistizio, ma con le saracinesche dei negozi abbassate, convinto che impedire «assembramenti al chiuso» depotenzi il rischio-diffusione. Anche lui fa riaprire il 12, ma in modo graduale e seguendo ossessivamente l’andamento della curva: e appena nota, il 27, un’inversione (una risalita a 700 casi, metà dei quali bambini, dopo un trend discendente di 2 settimane) convoca autorità politiche, mondo degli affari, dirigenti scolastici e decide di richiudere tutto per un mese, dal 28 novembre (il Ringraziamento) al 28 dicembre. Quella «capacità di auscultazione» non è il segreto solo del gennaio «quieto» di Saint Louis, ma la chiave metodologico-cognitiva di tutta la gestione di Starkloff e dei dati della città sull’intera pandemia: 1/3 dei contagi di Boston (città con identico numero di abitanti) e metà dei decessi di Philadelphia in proporzione alla popolazione. Una lezione — quella di Starkloff — non del tutto assimilata in America, se il recente Thanksgiving — con 6 milioni di persone in volo, il 40% del traffico dell’anno scorso — ha innescato un’impennata di contagi. Mentre i «cts» e i governi europei — la conoscano o meno — sembrano mossi, in questi giorni, da preoccupazioni non dissimili, consapevoli di quanto disti ancora l’incidenza dei vaccini e di farmaci come gli anticorpi monoclonali.

4. La «cavalleria» dei vaccini

Le metafore belliche si usano sempre con un certo disagio, ma in questo caso è giustificata sul piano cronistico-«filologico», se di «cavalleria» ha parlato Boris Johnson ben prima che l’intraprendenza dell’MHRA di June Raine — l’agenzia del farmaco britannica — introducesse il vaccino Pfizer-BioNTech in Gran Bretagna.

Sui tempi di incidenza della «cavalleria» del vaccino — salvo imprevisti nella fornitura/somministrazione — possediamo già una scaletta orientativa, a partire da quella calibrata sull’Italia: la successione per categorie vaccinate (medici e operatori sanitari, anziani, gli altri a seguire) e per tipologia di vaccino (prima quelli a mRNA); la possibile conclusione di una prima fase di somministrazioni (fine febbraio) e quella di una copertura più significativa per un abbozzo di immunità di gregge (10-15 milioni di dosi alla primavera inoltrata); le percentuali per un’immunità effettiva (65-85% di popolazione «coperta», forse a fine estate) e le eventuali complicazioni (possibili mutazioni nel genoma virale).

Così come parrebbero presto diradarsi i dubbi su un interrogativo centrale, quello sull’eventuale contagiosità dei vaccinati, dato che il vaccino Moderna sembrerebbe vanificarla, e quelli di Pfizer e Sanofi hanno mostrato la stessa proprietà negli animali.

Rimane però, a monte, un greve mix (un kit) di fake e resistenze, ad alimentare non solo il vasto movimento no-vax, ma anche a scoraggiare ulteriormente scettici «light».

Tra le cause, l’enfasi mediatica puntualmente concessa agli aspetti «spiacevoli», come le reazioni avverse di carattere allergico: vedi il caso dei due sanitari britannici (con episodi precedenti) e di due altri in Alaska (in particolare lo shock anafilattico di un’operatrice senza allergie pregresse). Poco importa che tutti i casi siano rientrati in fretta (con la parziale eccezione dell’operatrice); che le istituzioni sanitarie, come il CDC di Atlanta, abbiano subito imposto un più severo monitoraggio post-somministrazione di 30 minuti, risultato efficace; che la Pfizer abbia subito chiarito come nella fase 3 dei trials fossero stati esclusi pazienti con storie allergiche, così rinforzando la decisione già presa dall’MHRA (l’agenzia del farmaco britannico) di escludere dalla profilassi quella categoria. Il danno — come temuto da Anthony Fauci — rischia di essere già fatto.

E peggio ancora, a seguire, i flata vocis su un «potenziale alto impatto reattogenico» dello stesso vaccino Pfizer «sul 50 % dei vaccinati», specie giovani (percentuale tutta da dimostrare): anche, qui poco importa che un autorevole immunologo come Guido Forni, parlandone, precisi come si tratti di «disturbi leggeri e passeggeri». La vulgata rischia di tradursi in allarme iperbolico e ingiustificato, quindi in potente fattore di dissuasione. Vale allora la pena, forse, risalire ancora più a monte, al rapporto costitutivo rischi/benefici nei vaccini, ben esplicato in un libro (scritto a quattro mani con Lisa Vozza, I vaccini nell’era globale, Zanichelli) di uno dei più autorevoli scienziati italiani, Rino Rappuoli, microbiologo noto nel mondo per le sue scoperte proprio in quest’ambito.

Tra le tante: lo sviluppo vaccinale di CRM197, mutante non tossico della tossina difterica; il vaccino «acellulare» contro la pertosse; quello contro la meningite B, dopo la mappatura genica del batterio relativo. Riassumendo i tratti numerici dei trials-tipo (testati su un numero di individui tra 5000 e 100.000), Rappuoli ricorda come gli effetti collaterali e le reazioni avverse (di norma di numero pari o inferiore a 1 su 5000) non sempre vengano rilevati; proprio per questo, «la sorveglianza» da parte delle autorità di controllo della salute pubblica continua «anche quando i vaccini sono entrati in uso» (proprio come nel vaccino Pfizer). A riprova, il caso da manuale è quello di un vaccino contro il rotavirus (patologia letale, ogni anno, per 500.000 bambini nel mondo) che nel 1998 provoca una grave reazione avversa (blocco intestinale, ma senza alcun decesso) in 100 vaccinati su 1 milione, percentuale sufficiente a far si che l’FDA tolga il farmaco dal mercato. E rievocando un esempio ancora più classico (la percentuale di 1 caso di paralisi su 750.000 inoculazioni nel vaccino antipolio Sabin), Rappuoli introduce «la» questione: la valutazione del rischio da parte di Homo Sapiens. Il pericolo di una reazione avversa nel vaccino-Sabin è infatti 5000 volte più basso rispetto a quello di essere investiti in strada o subire (gravi) incidenti domestici, a conferma di come i nostri bias cognitivi ci portino a sopravvalutare rischi remoti (il morso di un serpente velenoso o- appunto- l’effetto collaterale di un vaccino) e a sottovalutare quelli più prossimi (gli stessi incidenti in macchina) o diluiti nel tempo e velati dalle abitudini o dalle addiction (la cancerogenicità del fumo o l’incidenza delle diete nel restringere il «lume» delle arterie).

Qui sta il nodo. Molti Paesi hanno preferito ricorrere, per la polio, al vaccino Salk, con effetti collaterali pressoché azzerati; tra questi, però, molti Paesi «in via di sviluppo» che avrebbero beneficiato del vaccino-Sabin, sia perché meno costoso, sia perché somministrabile per via orale e non per iniezione (vantaggio non da poco per strutture sanitarie deficitarie e sottorganico), sia — infine — perché più protettivo per l’intestino, organo d’ingresso privilegiato della polio in tanti di quei Paesi (India e Pakistan). Sono proprio simili bias la base della resistenza no-vax (si aggiunga, altro esempio eclatante, il nesso vaccini-autismo, cui Rappuoli dedica una demolizione definitiva). E sono proprio simili bias ad alimentare, in prospettiva anti-Covid, una riluttanza alla vaccinazione che può acuire sensibilmente la permanenza di un virus così trasmissibile e persistente.

Ma la resistenza alla somministrazione non rappresenta l’unico possibile fattore di acuizione della «vischiosità» di Covid-19. Potrebbe incidere anche un comportamento disfunzionale dei vaccinati, cioè troppo «leggero» nel periodo intercorrente tra l’inoculazione e un’effettiva protezione immunitaria: il vaccino Pfizer-BioNTech, ad esempio, comincia ad agire una dozzina di giorni dopo la prima dose, ma raggiunge la copertura dopo un mese (una settimana dopo la seconda). Un comportamento che potrebbe saldarsi pericolosamente alla più generale leggerezza profilattica (assembramenti, consistenti minoranze senza mascherina, etc.etc.) e alle insidie delle mutazioni virali (rischio al momento escluso, anche a proposito della citata N501Y «britannica»), vanificando in parte la strategia vaccinale.

L’analogia, al riguardo, è facile: i vaccini somministrati in un contesto simile rischiano di assomigliare a dei Canadair lanciati su un incendio che divampa anziché su fuochi residui: ed è per questo i Cts di tutto il mondo cercano disperatamente di abbassare la curva.

Intanto, si potrebbe forse approfondire qualche contributo innovativo. Per esempio quello sull’incidenza degli orari: Janet Lord (biologa-immunologa a Birmingham) ha scoperto che dopo una somministrazione mattutina di certi vaccini (specie negli anziani) la risposta immunitaria è nettamente più protettiva che dopo una somministrazione pomeridiana; e il collega Akhilesh Reddy (medico-scienziato al Crick Institute di Londra) l’ha confermato, scoprendo che in certi casi la risposta «innata» risulta fino a 10 volte superiore. La spiegazione possibile risiede nell’«orologio biologico» dei ritmi circadiani, il rapporto sonno/veglia che regola le nostre attività metaboliche: non a caso, Reddy ha pubblicato a luglio uno studio notevole sull’influenza del ritmo circadiano sul rapporto tra la replicazione di Sars-Cov-2 nell’organismo e la risposta immunitaria.

È cioè probabile, in generale, che i vaccinati rispondano meglio al mattino perché è quello il momento in cui sono più attivi alcuni recettori-chiave della risposta immunitaria innata (i cosiddetti toll-simili); e questo tanto più negli anziani, in cui il decremento dei leucociti (non di tutti i tipi, per la verità) comporta già un intrinseco indebolimento immunitario. Non ci sono ancora studi randomizzati ed estesi a conferma; però il processo è evidente nei topi, nei quali quei recettori e quella risposta sono più marcati nel cuore della notte, l’equivalente «circadiano» della mattina negli umani. Appendice non secondaria: in diversi vaccini quella risposta intensificata si nota soprattutto nei maschi. Se questo valesse anche per i vaccini contro Covid-19 (che colpisce maggiormente, in percentuale, proprio tra i maschi)…


5. I «proiettili magici», ovvero gli anticorpi monoclonali

Anche in questo caso, l’espressione bellica — «magic bullets» — ha fondamenti «filologici», dato che è stata introdotta dall’eminente immunologo Paul Ehrlich (Nobel 1908) per definire genericamente i «farmaci intelligenti» o «a bersaglio mirato», di cui i «monoclonali» (Monoclonal Antibodies o MAb) sono una delle ultime, più promettenti variazioni.

Semplificando brutalmente, i MAb sono l’elaborazione ingegnerizzata di anticorpi naturali prodotti dal sistema immunitario dei pazienti contro l’invasione di uno specifico patogeno o un altro agente esterno all’organismo (per esempio una crescita tumorale). Dove l’elaborazione consiste nel scegliere i più efficaci (per ogni «invasore» ci sono molti anticorpi attivi, come tante chiavi per una serratura, ma di diversa precisione) e farli replicare per esercitare l’azione di difesa.

La parabola dei MAb in biologia e medicina (in particolare nell’immunofarmacologia) è una delle più avvincenti nella storia della (tecno)scienza, tra conquiste spettacolari e fallimenti drammatici, e presto ci torneremo con un articolo specifico.

In rapporto a Covid-19, il passaggio-chiave della loro messa a punto (dell’esito favorevole di trials in molti casi appena cominciati) è la possibilità di inserirli sia nel set dei farmaci efficaci (al momento, di fatto, ridotto quasi solo ai cortisonici — come il desametasone — o l’eparina) sia di affiancarli ai vaccini nel timing del contrasto complessivo alla pandemia — nell’accelerare l’uscita dalla «vischiosità». E questo perché non sono utilizzabili solo per la cura, ma — almeno in determinati casi — anche per la prevenzione; inoltre, rispetto ai vaccini, compensano un handicap (la minor durata della «copertura») col vantaggio della maggior rapidità d’azione (anche 24 ore dopo la somministrazione, vs. il mese necessario per il vaccino Pfizer).

Al momento, però, il quadro è ancora nebuloso. Dei 5 farmaci più promettenti sul tappeto, 2 sono arcinoti: quello di Regeneron (Regn-Cov2) somministrato a Trump «in dosi da cavallo» e costruito con un cocktail di 2 MAb (uno isolato in un paziente di Singapore, l’altro creato in laboratorio); e quello di Ely Lilly (LY-CoV555), la cui oscillazione fra trials incoraggianti e sospesi non ha comunque impedito un’autorizzazione d’emergenza della FDA, che sarebbe stata possibile- per inciso- anche in Italia. Il terzo, quello di AstraZeneca (AZD7442), impiega una tecnologia in grado far sopravvivere gli anticorpi per 6-12 mesi (un tempo molto più esteso dei primi 2).

E gli ultimi 2 sono forse, per ragioni diverse, i più promettenti in assoluto. Il primo (MAD0004J08, selezionato dalla competizione con altri 2 anticorpi superpotenti) è quello del Monoclonal Antibody Discovery Lab di Fondazione Toscana Life Sciences (Siena), individuato sotto la supervisione proprio di Rino Rappuoli: i trials sono iniziati da poco e l’approvazione-commercializzazione è attesa per marzo. L’altro — trials avviati da tempo — è quello della Prometheus di Karlik Chandran (Albert Einstein College of Medicine di NY), ed è considerato da molti una sorta di Sacro Graal in quanto in teoria efficace (anche perché selezionato da lunghi studi pregressi sui virus dei pipistrelli) contro tutti i tipi di coronavirus, quindi anche quelli destinati a futuri spillover (salti di specie).

La difficoltà, per i MAb, è al momento legata soprattutto ai costi, tali da rendere il farmaco elitario. Ma proprio quello creato da Rappuoli e dai suoi potrebbe essere, al riguardo, risolutivo, dato che anticorpi più potenti non devono essere impiegati in grandi quantità (il motivo principale del costo). Mentre un altro teorico problema, condiviso coi vaccini (quello di eventuali mutazioni di SARS-CoV-2 in grado di aggirarne l’efficacia) potrebbe essere a sua volta affrontato coi cocktail (come quello di Regeneron), cioè con assemblaggi di più anticorpi in grado di fornire risposte immunitarie differenziate.

6. La «partita a scacchi» e la «coperta corta» salute-economia

Autorevoli storici delle scienze biomediche come Gilberto Corbellini hanno ragione a diffidare, in ottica darwiniana, della metafora della «partita a scacchi» tra noi e Sars-CoV-2; anche perché, in quell’ottica, è una partita persa in partenza. Ma può essere comunque utile per spiegarne un’altra che vi si accavalla, quella della «coperta corta» tra salute e economia, nel senso che — comunque vada — dovremo sacrificare molti pezzi. Anche perché non si intravede una Beth Harmon, una «regina degli scacchi» che possa venire in nostro soccorso (per inciso: chi ama la gradevole fiction legga il capolavoro di Walter Tevis, di molto superiore). Non subito, almeno.

Non subito, almeno.

Da qui fino a un possibile, vero mutamento di paesaggio (diciamo alla primavera inoltrata, quando potrebbero convergere diversi fattori favorevoli, dagli effetti di vaccini e MAb alla stagionalità), resta la coda (non breve) di simil-cattività, da affrontare solo con la «metrica» epidemiologica.

E con un paio di punti su cui ragionare.

È vero — com’è stato detto e scritto — che in generale i «provvedimenti» contano più dei «comportamenti», nel senso che i primi incanalano i secondi: che la «folla» non coincide col «pubblico», in quanto obbedisce — fin dal suo «design» — a vincoli di determinismo dinamico più prossimi all’idraulica che alla psicologia. Ed è vero che una simile immagine — stilizzazione degli shopping urbani di questi week-end — allude con efficacia alla limitazione del nostro libero arbitrio. Limitazione, appunto, non inesistenza: per quanto tante discipline (neuroscienze in testa) abbiano mostrato la matrice inconscia e condizionata di tante nostre «scelte», resta uno «spiraglio» di deliberazione da esercitare su un range — se non di opzioni alternative — di gradazioni, anche in contesti «sigillati» come lo shopping. Nessuno impone a nessuno di entrare e sostare in un negozio o uno store sovraffollati: la soddisfazione di certi «bisogni» può essere quanto meno rimandata; e una legge o una norma non vanno prese ad alibi, specie se «interpretate» verso il massimo grado di anarchismo consentito dalle stesse (spesso spacciato per «esigenza di libertà»). E questo può essere esteso ai tanti comportamenti «disfunzionali» — se non all’etica, all’interesse collettivo, perché qui si salute e economia si saldano — praticati senza potersi giustificare dietro «incanalamenti idraulici»: le tante mascherine non o mal indossate, i tanti assembramenti non necessari, le tante «deroghe» auto-concesse in situazioni impossibili da controllare. Ed è vero, infine, come si diceva a proposito della «liberazione» estiva, che in molti casi comportamenti simili sono naturali sbocchi adattativi, specie in contesti in cui la cattività tocca punte di alienazione disperante, come in certe «carceri» condominiali delle periferie urbane. Ma — è imbarazzante, quasi umiliante ricordarlo — nell’ultimo tratto di sacrificio psicosociale che resta da percorrere, la responsabilità individuale rimane, per qualche mese, l’unico «proiettile magico» (anche se spuntato) di cui disponiamo.

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