Covid, quando finirà? Le tappe (e gli ostacoli) per uscire dall’incubo
a) A livello globale, Covid-19 disegna un unico flusso (un’unica «ondata») il cui andamento si misurerà negli anni, dall’outbreak (non necessariamente a Wuhan, come indicato qui) al suo progressivo diradarsi. L’unico precedente possibile, al riguardo, è l’«influenza russa» del 1889-95, che studi recenti riconducono con buone probabilità proprio a un coronavirus, HCoV-OC43: ma l’arco molto esteso di quella pandemia (6 anni, anche se il periodo di maggior pressione è nel primo biennio) è dovuto anche all’assenza di terapie efficaci e vaccini, fattori che determineranno un più rapido addomesticamento di Sars-CoV-2, una sua più veloce «riduzione» — proprio com’è avvenuto per HCoV-OC43 — a virus respiratorio di entità lieve-media;
b) Nel contiuum dell’evento pandemico le variazioni di durata e intensità viaggiano nel tempo e nello spazio, determinando una sorta di turn-over che David Quammen paragona alla «ghirlanda luminosa di Natale» (analogia mai così appropriata), con l’on/off più lento dove le popolazioni sono più distanziate e la luminosità più forte o più blanda a seconda della consistenza del contagio. Il che scioglie un equivoco diffuso e persistente, secondo cui Paesi come gli Usa non avrebbero quasi avuto discontinuità tra ondate, mentre altri (come quelli europei presi singolarmente) sì: il paragone andrebbe invece svolto, ovviamente, in modo omogeneo, a livello continentale (o — al limite — tra Stati americani e europei), ottica in cui l’andamento pandemico europeo mostrerebbe una «sua» continuità, anche se meno marcata di quella americana, una «ghirlanda» a sua volta quasi sempre accesa, dovuta al turn-over delle aree: vedi il contrasto, in estate, tra il quasi azzeramento «occidentale» e l’improvvisa impennata dell’est ex-sovietico.
c) Un corollario-chiave della «ghirlanda» spiega invece le asincronie delle «emergenze» tra aree più perimetrate, come dimostra proprio il quadro italiano. Tendenzialmente, aree più colpite nel primo flusso (nella prima «ondata») lo sono meno nelle recidive (vedi Bergamo o Lodi) e viceversa (il distretto di Monza-Brianza o il Veneto tout court). E questo per un evidente acquisizione o meno di una (parziale) immunità di gregge. Dove, invece, tassi di contagiosità/mortalità restano alti nei diversi flussi (nelle diverse «ondate»), incidono fattori strutturali come l’alta densità di popolazione, l’anagrafe e le malattie pregresse (i molti anziani), la connettività industrial-commerciale, e così via; fattori che devono essere presenti simultaneamente (il Veneto, ad esempio, non ha la demografia lombarda né per numero, né per densità).
2. L’importanza della genetica
Tutto questo senza dimenticare un macro-fattore al momento in ombra per deficit di dati e conferme: la genetica, da approfondire sui due versanti.
Quello dell’agente patogeno,
con lo studio delle mutazioni più significative per break di
contagiosità secondo aree e fasi pandemiche, come l’ormai nota D614G
(stessa sigla di un lied di Schubert) o la recentissima N501Y — la più significativa delle 23 nella variante VUI202012/01 — cui si riferiva in conferenza stampa Boris Johnson.
E quello dell’ospite umano, con la focalizzazione della maggiore suscettibilità a Sars-CoV-2 sia a livello di genetica delle popolazioni (l’aplogruppo R1b e in particolare il subclade R1b-S116,
di remota origine iberica e diffuso in aree già «predisposte» sul piano
ambientale come Castiglia, valli bergamasche, Fiandre o Brabante del
nord, a completare una «tempesta perfetta») che di tratti individuali:
vedi la recente scoperta sull’incidenza di un gene come IFNAR2, la cui disfunzionalità inibirebbe la produzione di interferone nella prima fase della risposta immunitaria, esponendo il soggetto a sviluppare una forma più severe della patologia.
Conferme
(o affinamenti) in questa direzione potranno contribuire a rimodulare
tante risposte a domande assillanti: in quanto aplogruppo del cromosoma
Y, R1b potrebbe essere tra i cofattori decisivi nella maggior mortalità tra pazienti maschili; e in quanto diffuso in tutte le aree ispaniche e anglosassoni, potrebbe aiutare a spiegare i primi posti della «classifica» Johns Hopkins. Tra questi, il drammatico primato dell’Italia tra i Paesi più colpiti
(in realtà discutibile, se i dati spagnoli rivisti dall’ Ine — il loro
Istat — hanno «decriptato» 29.00 decessi tra morti in casa e RSA), non
riconducibile solo ai fattori contestuali citati, a morfologie sociali
(i forti contatti familiari intergenerazionali) o a disfunzioni
sanitarie strutturali, dai tagli decennali al dissesto della medicina
territoriale (si vedano qui i pezzi di Marco Imarisio e di Laura Cuppini).
3. Il «collo di bottiglia» delle festività (e della stagionalità)
Tra le implicazioni del continuum ce n’è una che introduce direttamente ai prossimi giorni: il rapporto con la stagionalità,
cioè la pressione ambientale che incide, ancora una volta, sia
sull’agente patogeno (attraverso la sensibilità a temperatura,
escursione termica, umidità relativa o RH) che — simmetricamente —
sull’ospite umano, la cui maggiore «vulnerabilità immunitaria» in certi
periodi (il passaggio dall’estate all’autunno) è dimostrata da
alterazioni di indicatori come la melatonina o la vitamina D.
A
cornice del quadro, com’è noto, il contrasto spazi aperti/ spazi chiusi,
coi primi decisivi nella dispersione di droplet e aerosol. È anche
questo rapporto, infatti, a spiegare come la pausa estiva — la «brezza»
del vento nel continuum pandemico, da qualcuno scambiata per un epilogo —
sia durata per un tempo relativamente lungo (4/5 mesi), con la
controprova plastica — a proposito dell’incidenza degli spazi chiusi —
fornita da situazioni anomale come quelle delle discoteche e dei luxury
sardi, tra i pochi focolai del periodo.
A spiegare, quindi,
perché tra il primo e il secondo flusso (tra la «prima e la seconda
ondata»), l’«intervallo» sia stato molto più esteso di quanto potrebbe
essere quello tra la «seconda» ora in corso (calante o in estinzione) e
un’eventuale «terza». Potrebbe anzi crearsi una pulviscolarità nebbiosa,
in cui sarebbe difficile distinguere l’ultimo strascico dell’una e
l’innesco dell’altra.
Certo, in teoria è possibile che
l’andamento intrinseco del virus distanzi la «terza ondata». Possibile,
ma (per i motivi esposti) improbabile. E nell’ottica di quella
sovrapposizione-indistinzione tra le ondate (o, almeno, della loro
prossimità) sarebbe quanto meno imprudente un vero allentamento della
profilassi epidemiologica. Anche perché va sempre tenuto della possibile
incidenza delle mutazioni, come quella «inglese» (più a livello di trasmissibilità che di letalità).
Tra la prima e la seconda «ondata», un calo di tensione è stato non
solo comprensibile ma in larga parte giustificato; con qualche eccezione
(i citati esempi sardi o qualche viaggio all’estero in luoghi in fase
critica) non c’è un vero nesso tra comportamenti irresponsabili
dell’estate e l’innesco-irradiazione del nuovo flusso pandemico.
Quell’innesco, secondo diversi studi, risponderebbe a precisi timing ambientali (secondo l’epidemiologo francese Martin Blachier a un evento-meteo break tra 29 settembre e 1° ottobre) e a precise dinamiche di contagio (un focolaio partito da lavoratori agricoli spagnoli, peraltro associato a una nuova mutazione del virus, 20A.EU1).
In quell’«intervallo», semmai, colpisce il letargo istituzionale a ogni
livello, governativo (il lavoro deficitario su terapie intensive,
assistenza-USCA domiciliare, riassunzione di infermieri,
riorganizzazione dei trasporti rispetto a scuola e lavoro) che regionale
(il caso-monstre dei governatori lombardi e della mancata copertura del vaccino antiinfluenzale, le cui conseguenze — in potenza drammatiche — sono state finora «velate» dalla profilassi collettiva anti-Covid).
E
colpisce, semmai, il ritardo oggettivo nel leggere/anticipare la «terza
ondata»: le famose 3 settimane perse dal 12 ottobre al 3 novembre, dal
giorno dell’impennata-break a quello degli automatismi cromatici.
Ora, invece, la scelta di un lockdown più o meno radicale è di fatto obbligata,
tanto da essere stata adottata da molti Paesi europei: pena una
risalita di flusso (una «terza ondata») che ri-eserciterebbe sugli
ospedali, da gennaio in poi, una pressione intollerabile.
Digressione – Il Natale e la Spagnola
Qui,
il precedente istruttivo è la «metrica» della Spagnola, che pure,
ricordiamo, non è un corona ma un orthomyxovirus influenzale (sempre a
Rna). Anche in quel caso — con cadenze un po’ sfalsate rispetto a
Covid-19 — si registrano tre- quattro «ondate», con un intervallo più
lungo tra la prima e la seconda (la più devastante, col virus mutato e
più letale) che tra la seconda e la terza, per gli stessi motivi tra
stagionalità, biofisica del virus, condizioni immunitarie dell’ospite. E
anche in quel caso, è salita la fibrillazione prenatalizia,
peraltro a complemento di altre celebrazioni a rischio-assembramento:
le feste popolari per l’Armistizio bellico (11 novembre) e il
Thanksgiving, il Ringraziamento (il 28), che viene officiato in molti
Stati con modi pantagruelici, nonostante il Paese conti già 300.000
morti (arriverà, a fine pandemia, a 675.000). Il contesto, rispetto a
oggi, è ovviamente molto diverso, dato che le «bombe biologiche» di
quegli assembramenti si assommano a quella più consistente del «rientro
natalizio» di marinai e soldati, fattore solo in parte compensato dalla
stanzialità della maggioranza degli americani, che trascorrono il Natale
in casa. Ma comune è l’amletismo di fronte al perenne dilemma pandemico
«health or wealth», acuito dall’avvicinarsi del Natale.
Agli antipodi — un po’ estremizzando — si possono citare due esempi. Quello negativo è Seattle, dove il Commissario della Salute J.S.
McBride — esemplare nella gestione fino all’Armistizio escluso — è
costretto a cedere alle pressioni del business e della politica per
«riaprire» dal giorno successivo, 12 novembre. L’establishment e
larga parte della cittadinanza credono infatti che 5 settimane di
lockdown abbiano estromesso il patogeno: come recita l’adagio dominante,
«Influenza ban completely off». Anche McBride, dopo l’irritazione
iniziale, è convinto (o meglio «si convince») che qualche indicazione
cautelare basti a contenere nuove fiammate: ma le riaperture totali
(negozi dalle 9 alle 17; scuole di ogni ordine e grado; sale da biliardo
e da ballo; teatri, con spettacoli popolari di vaudeville puntualmente
«sold out») covano una devastante risalita di contagi e decessi.
I dati complessivi, sul lungo periodo, daranno ragione a McBride, con
Seattle messa meglio di tante altre città americane: ma quello dei
decessi post-natalizi non solo nel capoluogo (metà dei 5000 decessi
dello Stato di Washington concentrati nel gennaio ‘19) offre la misura
di quelle riaperture avventate per timing e portata.
L’esempio, positivo, ancora una volta, è quello di Max Starkloff,
il Commissario di Saint Louis. Se altri Commissari vengono (a torto o
ragione) demonizzati, Starkloff è forse oggetto agiografia infondata,
dato che anche lui ha commesso errori e ceduto, in certi momenti, a
pressioni economico-politiche. Ma la gestione (la sequenza) del periodo prenatalizio (da seguire al ralenty) è altamente indicativa del suo «fiuto»
epidemiologico. Anche lui lascia celebrare l’armistizio, ma con le
saracinesche dei negozi abbassate, convinto che impedire «assembramenti
al chiuso» depotenzi il rischio-diffusione. Anche lui fa riaprire il 12,
ma in modo graduale e seguendo ossessivamente l’andamento della curva: e
appena nota, il 27, un’inversione (una risalita a 700 casi, metà dei
quali bambini, dopo un trend discendente di 2 settimane) convoca
autorità politiche, mondo degli affari, dirigenti scolastici e decide di
richiudere tutto per un mese, dal 28 novembre (il Ringraziamento) al 28 dicembre. Quella «capacità di auscultazione» non è il segreto solo del gennaio «quieto» di Saint Louis,
ma la chiave metodologico-cognitiva di tutta la gestione di Starkloff e
dei dati della città sull’intera pandemia: 1/3 dei contagi di Boston
(città con identico numero di abitanti) e metà dei decessi di
Philadelphia in proporzione alla popolazione. Una lezione — quella di
Starkloff — non del tutto assimilata in America, se il
recente Thanksgiving — con 6 milioni di persone in volo, il 40% del
traffico dell’anno scorso — ha innescato un’impennata di contagi.
Mentre i «cts» e i governi europei — la conoscano o meno — sembrano
mossi, in questi giorni, da preoccupazioni non dissimili, consapevoli di
quanto disti ancora l’incidenza dei vaccini e di farmaci come gli
anticorpi monoclonali.
4. La «cavalleria» dei vaccini
Le
metafore belliche si usano sempre con un certo disagio, ma in questo
caso è giustificata sul piano cronistico-«filologico», se di
«cavalleria» ha parlato Boris Johnson ben prima che l’intraprendenza
dell’MHRA di June Raine — l’agenzia del farmaco britannica —
introducesse il vaccino Pfizer-BioNTech in Gran Bretagna.
Sui
tempi di incidenza della «cavalleria» del vaccino — salvo imprevisti
nella fornitura/somministrazione — possediamo già una scaletta
orientativa, a partire da quella calibrata sull’Italia:
la successione per categorie vaccinate (medici e operatori sanitari,
anziani, gli altri a seguire) e per tipologia di vaccino (prima quelli a
mRNA); la possibile conclusione di una prima fase di somministrazioni
(fine febbraio) e quella di una copertura più significativa per un
abbozzo di immunità di gregge (10-15 milioni di dosi alla primavera
inoltrata); le percentuali per un’immunità effettiva (65-85% di popolazione «coperta», forse a fine estate) e le eventuali complicazioni (possibili mutazioni nel genoma virale).
Così come parrebbero presto diradarsi i dubbi su un interrogativo centrale, quello sull’eventuale contagiosità dei vaccinati, dato che il vaccino Moderna sembrerebbe vanificarla, e quelli di Pfizer e Sanofi hanno mostrato la stessa proprietà negli animali.
Rimane però, a monte, un greve mix (un kit) di fake e resistenze, ad alimentare non solo il vasto movimento no-vax, ma anche a scoraggiare ulteriormente scettici «light».
Tra
le cause, l’enfasi mediatica puntualmente concessa agli aspetti
«spiacevoli», come le reazioni avverse di carattere allergico: vedi il
caso dei due sanitari britannici (con episodi precedenti) e di due altri
in Alaska (in particolare lo shock anafilattico di un’operatrice senza
allergie pregresse). Poco importa che tutti i casi siano rientrati in
fretta (con la parziale eccezione dell’operatrice); che le istituzioni
sanitarie, come il CDC di Atlanta, abbiano subito imposto un più severo
monitoraggio post-somministrazione di 30 minuti, risultato efficace; che
la Pfizer abbia subito chiarito come nella fase 3 dei trials fossero
stati esclusi pazienti con storie allergiche, così rinforzando la
decisione già presa dall’MHRA (l’agenzia del farmaco britannico) di
escludere dalla profilassi quella categoria. Il danno — come temuto da
Anthony Fauci — rischia di essere già fatto.
E peggio ancora, a seguire, i flata vocis
su un «potenziale alto impatto reattogenico» dello stesso vaccino
Pfizer «sul 50 % dei vaccinati», specie giovani (percentuale tutta da
dimostrare): anche, qui poco importa che un autorevole immunologo come
Guido Forni, parlandone, precisi come si tratti di «disturbi leggeri e
passeggeri». La vulgata rischia di tradursi in allarme iperbolico e
ingiustificato, quindi in potente fattore di dissuasione. Vale allora la
pena, forse, risalire ancora più a monte, al rapporto costitutivo rischi/benefici nei vaccini, ben esplicato in un libro (scritto a quattro mani con Lisa Vozza, I vaccini nell’era globale, Zanichelli) di uno dei più autorevoli scienziati italiani, Rino Rappuoli, microbiologo noto nel mondo per le sue scoperte proprio in quest’ambito.
Tra
le tante: lo sviluppo vaccinale di CRM197, mutante non tossico della
tossina difterica; il vaccino «acellulare» contro la pertosse; quello
contro la meningite B, dopo la mappatura genica del batterio relativo.
Riassumendo i tratti numerici dei trials-tipo (testati su un numero di
individui tra 5000 e 100.000), Rappuoli ricorda come gli effetti
collaterali e le reazioni avverse (di norma di numero pari o inferiore a
1 su 5000) non sempre vengano rilevati; proprio per questo, «la
sorveglianza» da parte delle autorità di controllo della salute pubblica
continua «anche quando i vaccini sono entrati in uso» (proprio come nel
vaccino Pfizer). A riprova, il caso da manuale è quello di un vaccino
contro il rotavirus (patologia letale, ogni anno, per 500.000 bambini
nel mondo) che nel 1998 provoca una grave reazione avversa (blocco
intestinale, ma senza alcun decesso) in 100 vaccinati su 1 milione,
percentuale sufficiente a far si che l’FDA tolga il farmaco dal mercato.
E rievocando un esempio ancora più classico (la percentuale di 1 caso
di paralisi su 750.000 inoculazioni nel vaccino antipolio Sabin),
Rappuoli introduce «la» questione: la valutazione del rischio da parte di Homo Sapiens.
Il pericolo di una reazione avversa nel vaccino-Sabin è infatti 5000
volte più basso rispetto a quello di essere investiti in strada o subire
(gravi) incidenti domestici, a conferma di come i nostri bias cognitivi ci portino a sopravvalutare
rischi remoti (il morso di un serpente velenoso o- appunto- l’effetto
collaterale di un vaccino) e a sottovalutare quelli più prossimi (gli
stessi incidenti in macchina) o diluiti nel tempo e velati dalle
abitudini o dalle addiction (la cancerogenicità del fumo o l’incidenza delle diete nel restringere il «lume» delle arterie).
Qui
sta il nodo. Molti Paesi hanno preferito ricorrere, per la polio, al
vaccino Salk, con effetti collaterali pressoché azzerati; tra questi,
però, molti Paesi «in via di sviluppo» che avrebbero beneficiato del
vaccino-Sabin, sia perché meno costoso, sia perché somministrabile per
via orale e non per iniezione (vantaggio non da poco per strutture
sanitarie deficitarie e sottorganico), sia — infine — perché più
protettivo per l’intestino, organo d’ingresso privilegiato della polio
in tanti di quei Paesi (India e Pakistan). Sono proprio simili bias la base della resistenza no-vax
(si aggiunga, altro esempio eclatante, il nesso vaccini-autismo, cui
Rappuoli dedica una demolizione definitiva). E sono proprio simili bias
ad alimentare, in prospettiva anti-Covid, una riluttanza alla vaccinazione che può acuire sensibilmente la permanenza di un virus così trasmissibile e persistente.
Ma
la resistenza alla somministrazione non rappresenta l’unico possibile
fattore di acuizione della «vischiosità» di Covid-19. Potrebbe incidere
anche un comportamento disfunzionale dei
vaccinati, cioè troppo «leggero» nel periodo intercorrente tra
l’inoculazione e un’effettiva protezione immunitaria: il vaccino
Pfizer-BioNTech, ad esempio, comincia ad agire una dozzina di giorni
dopo la prima dose, ma raggiunge la copertura dopo un mese (una
settimana dopo la seconda). Un comportamento che potrebbe saldarsi
pericolosamente alla più generale leggerezza profilattica
(assembramenti, consistenti minoranze senza mascherina, etc.etc.) e alle
insidie delle mutazioni virali (rischio al momento escluso, anche a
proposito della citata N501Y «britannica»), vanificando in parte la
strategia vaccinale.
L’analogia, al riguardo, è facile: i
vaccini somministrati in un contesto simile rischiano di assomigliare a
dei Canadair lanciati su un incendio che divampa anziché su fuochi
residui: ed è per questo i Cts di tutto il mondo cercano disperatamente di abbassare la curva.
Intanto, si potrebbe forse approfondire qualche contributo innovativo. Per esempio quello sull’incidenza degli orari: Janet Lord (biologa-immunologa a Birmingham) ha scoperto che dopo
una somministrazione mattutina di certi vaccini (specie negli anziani)
la risposta immunitaria è nettamente più protettiva che dopo una
somministrazione pomeridiana; e il collega Akhilesh Reddy
(medico-scienziato al Crick Institute di Londra) l’ha confermato,
scoprendo che in certi casi la risposta «innata» risulta fino a 10 volte superiore.
La spiegazione possibile risiede nell’«orologio biologico» dei ritmi
circadiani, il rapporto sonno/veglia che regola le nostre attività
metaboliche: non a caso, Reddy ha pubblicato a luglio uno studio
notevole sull’influenza del ritmo circadiano sul rapporto tra la
replicazione di Sars-Cov-2 nell’organismo e la risposta immunitaria.
È
cioè probabile, in generale, che i vaccinati rispondano meglio al
mattino perché è quello il momento in cui sono più attivi alcuni
recettori-chiave della risposta immunitaria innata (i cosiddetti
toll-simili); e questo tanto più negli anziani, in cui il decremento dei
leucociti (non di tutti i tipi, per la verità) comporta già un
intrinseco indebolimento immunitario. Non ci sono ancora studi
randomizzati ed estesi a conferma; però il processo è evidente nei topi,
nei quali quei recettori e quella risposta sono più marcati nel cuore
della notte, l’equivalente «circadiano» della mattina negli umani.
Appendice non secondaria: in diversi vaccini quella risposta
intensificata si nota soprattutto nei maschi. Se questo valesse anche
per i vaccini contro Covid-19 (che colpisce maggiormente, in
percentuale, proprio tra i maschi)…
5. I «proiettili magici», ovvero gli anticorpi monoclonali
Anche
in questo caso, l’espressione bellica — «magic bullets» — ha fondamenti
«filologici», dato che è stata introdotta dall’eminente immunologo Paul
Ehrlich (Nobel 1908) per definire genericamente i «farmaci
intelligenti» o «a bersaglio mirato», di cui i «monoclonali» (Monoclonal
Antibodies o MAb) sono una delle ultime, più promettenti variazioni.
Semplificando brutalmente, i
MAb sono l’elaborazione ingegnerizzata di anticorpi naturali prodotti
dal sistema immunitario dei pazienti contro l’invasione di uno specifico
patogeno o un altro agente esterno all’organismo (per esempio
una crescita tumorale). Dove l’elaborazione consiste nel scegliere i più
efficaci (per ogni «invasore» ci sono molti anticorpi attivi, come
tante chiavi per una serratura, ma di diversa precisione) e farli
replicare per esercitare l’azione di difesa.
La parabola dei MAb
in biologia e medicina (in particolare nell’immunofarmacologia) è una
delle più avvincenti nella storia della (tecno)scienza, tra conquiste
spettacolari e fallimenti drammatici, e presto ci torneremo con un
articolo specifico.
In rapporto a Covid-19, il passaggio-chiave
della loro messa a punto (dell’esito favorevole di trials in molti casi
appena cominciati) è la possibilità di inserirli sia nel set dei farmaci efficaci (al momento, di fatto, ridotto quasi solo ai cortisonici — come il desametasone — o l’eparina) sia di affiancarli ai vaccini nel timing del contrasto complessivo alla pandemia —
nell’accelerare l’uscita dalla «vischiosità». E questo perché non sono
utilizzabili solo per la cura, ma — almeno in determinati casi — anche
per la prevenzione; inoltre, rispetto ai vaccini, compensano un handicap (la minor durata della «copertura») col vantaggio della maggior rapidità d’azione (anche 24 ore dopo la somministrazione, vs. il mese necessario per il vaccino Pfizer).
Al momento, però, il quadro è ancora nebuloso. Dei 5 farmaci più promettenti sul tappeto, 2 sono arcinoti: quello di Regeneron (Regn-Cov2)
somministrato a Trump «in dosi da cavallo» e costruito con un cocktail
di 2 MAb (uno isolato in un paziente di Singapore, l’altro creato in
laboratorio); e quello di Ely Lilly (LY-CoV555),
la cui oscillazione fra trials incoraggianti e sospesi non ha comunque
impedito un’autorizzazione d’emergenza della FDA, che sarebbe stata
possibile- per inciso- anche in Italia. Il terzo, quello di AstraZeneca (AZD7442), impiega una tecnologia in grado far sopravvivere gli anticorpi per 6-12 mesi (un tempo molto più esteso dei primi 2).
E
gli ultimi 2 sono forse, per ragioni diverse, i più promettenti in
assoluto. Il primo (MAD0004J08, selezionato dalla competizione con altri
2 anticorpi superpotenti) è quello del Monoclonal
Antibody Discovery Lab di Fondazione Toscana Life Sciences (Siena),
individuato sotto la supervisione proprio di Rino Rappuoli: i
trials sono iniziati da poco e l’approvazione-commercializzazione è
attesa per marzo. L’altro — trials avviati da tempo — è quello della Prometheus di Karlik Chandran (Albert Einstein College of Medicine di NY),
ed è considerato da molti una sorta di Sacro Graal in quanto in teoria
efficace (anche perché selezionato da lunghi studi pregressi sui virus
dei pipistrelli) contro tutti i tipi di coronavirus, quindi anche quelli
destinati a futuri spillover (salti di specie).
La difficoltà, per i MAb, è al momento legata soprattutto ai costi, tali da rendere il farmaco elitario.
Ma proprio quello creato da Rappuoli e dai suoi potrebbe essere, al
riguardo, risolutivo, dato che anticorpi più potenti non devono essere
impiegati in grandi quantità (il motivo principale del costo). Mentre un
altro teorico problema, condiviso coi vaccini (quello di eventuali
mutazioni di SARS-CoV-2 in grado di aggirarne l’efficacia) potrebbe
essere a sua volta affrontato coi cocktail (come quello di Regeneron),
cioè con assemblaggi di più anticorpi in grado di fornire risposte immunitarie differenziate.
6. La «partita a scacchi» e la «coperta corta» salute-economia
Autorevoli storici delle scienze biomediche come Gilberto Corbellini hanno ragione a diffidare, in ottica darwiniana, della metafora della «partita a scacchi» tra noi e Sars-CoV-2; anche perché, in quell’ottica, è una partita persa in partenza. Ma può essere comunque utile per spiegarne un’altra che vi si accavalla, quella della «coperta corta» tra salute e economia, nel senso che — comunque vada — dovremo sacrificare molti pezzi. Anche perché non si intravede una Beth Harmon, una «regina degli scacchi» che possa venire in nostro soccorso (per inciso: chi ama la gradevole fiction legga il capolavoro di Walter Tevis, di molto superiore). Non subito, almeno.
Non subito, almeno.
Da qui fino a un possibile, vero mutamento di paesaggio (diciamo alla primavera inoltrata, quando potrebbero convergere diversi fattori favorevoli, dagli effetti di vaccini e MAb alla stagionalità), resta la coda (non breve) di simil-cattività, da affrontare solo con la «metrica» epidemiologica.
E con un paio di punti su cui ragionare.
È vero — com’è stato detto e scritto — che in generale i «provvedimenti» contano più dei «comportamenti», nel senso che i primi incanalano i secondi: che la «folla» non coincide col «pubblico», in quanto obbedisce — fin dal suo «design» — a vincoli di determinismo dinamico più prossimi all’idraulica che alla psicologia. Ed è vero che una simile immagine — stilizzazione degli shopping urbani di questi week-end — allude con efficacia alla limitazione del nostro libero arbitrio. Limitazione, appunto, non inesistenza: per quanto tante discipline (neuroscienze in testa) abbiano mostrato la matrice inconscia e condizionata di tante nostre «scelte», resta uno «spiraglio» di deliberazione da esercitare su un range — se non di opzioni alternative — di gradazioni, anche in contesti «sigillati» come lo shopping. Nessuno impone a nessuno di entrare e sostare in un negozio o uno store sovraffollati: la soddisfazione di certi «bisogni» può essere quanto meno rimandata; e una legge o una norma non vanno prese ad alibi, specie se «interpretate» verso il massimo grado di anarchismo consentito dalle stesse (spesso spacciato per «esigenza di libertà»). E questo può essere esteso ai tanti comportamenti «disfunzionali» — se non all’etica, all’interesse collettivo, perché qui si salute e economia si saldano — praticati senza potersi giustificare dietro «incanalamenti idraulici»: le tante mascherine non o mal indossate, i tanti assembramenti non necessari, le tante «deroghe» auto-concesse in situazioni impossibili da controllare. Ed è vero, infine, come si diceva a proposito della «liberazione» estiva, che in molti casi comportamenti simili sono naturali sbocchi adattativi, specie in contesti in cui la cattività tocca punte di alienazione disperante, come in certe «carceri» condominiali delle periferie urbane. Ma — è imbarazzante, quasi umiliante ricordarlo — nell’ultimo tratto di sacrificio psicosociale che resta da percorrere, la responsabilità individuale rimane, per qualche mese, l’unico «proiettile magico» (anche se spuntato) di cui disponiamo.
CORRIERE.IT
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