L’anno dell’umarell collettivo
Sia per tutti un buon Natale, ma i miei auguri preminenti vanno oggi a due amici, Maurizio Crippa e Giovanni Orsina. Maurizio Crippa ha scritto l’altro giorno sul Foglio un articolo che compendia il 2020 o forse gli ultimi due secoli, e in poche righe delimita il pozzo in cui ci siamo calati, noi formiche di una società vittimaria ed emozionale (come diagnostica l’Express, spiega Crippa, in un’intervista a Emmanuel Macron). Ricorda la Cultura del piagnisteo di Robert Hughes, un libro del 1994 e già un classico, la costante pretesa di un risarcimento delle sventure o, in tempi meno tempestosi di questo, dell’infelicità, la nascita del reality del commento permanente. Ovvero, c’è sempre qualcosa da ridire. E nemmeno la critica, piuttosto il processo, sommario e popolare, al governo, all’opposizione, alla scienza, alla tv, ai giornali, agli industriali, alla magistratura, a qualsiasi pensiero passi di lì, ultimamente si è introdotto il processo alla storia per condannare in contumacia gli antichi colpevoli (molto presunti) dei disastri moderni: alla sbarra Cristoforo Colombo e Winston Churchill, per esempio, giudicati su codici contemporanei al gusto contemporaneo, un po’ frivolo, un po’ volubile.
Non so se Crippa abbia letto La fine del dibattito pubblico di Mark Thompson, già direttore generale della Bbc, poi amministratore delegato del New York Times. Il libro di Thompson non raggiunge le altezze di quello di Hughes, ma è stato scritto nel 2006, quando la società vittimaria ed emozionale si era ormai impadronita del web, l’arma maneggevole e universale del piagnisteo. Sul web ognuno di noi raggiunge il diritto di impancarsi a magistrato, filosofo, sociologo, economista, premier, in sostituzione di magistrati, filosofi, sociologi eccetera responsabili, nel loro ruolo elitario – molto malamente definito elitario – di non aver condotto il pianeta allo splendore del giardino terrestre. Il commentatore vittimista non necessita di una competenza né tantomeno di una cultura, il preteso insuccesso altrui è il suo pulpito, e comunque lui è il raggirato, è il turlupinato, tanta basta a dargli voce con solidità di legge. Né l’instancabile dissertatio commentatoria gli impone di conoscere l’oggetto che critica, gli basta essersene fatto un’idea, una mezza idea, un a prima vista, il titolo, il sunto massimo, una frase tirata fuori perché slegata suona sufficientemente biasimevole da chiamare a raccolta il popolo giustiziere, ed è tutto consentito perché il linciaggio di oggi non prevede spargimento di sangue: ci si accontenta di calunnia, diffamazione, discredito, di trascinare chiunque nell’evidenza di un peccato a cui è estraneo: il razzismo, il sesssimo, il fascismo, o la pura e semplice imbecillità.
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