L’anno dell’umarell collettivo

A Giovanni Orsina – editorialista della Stampa, storico e politologo della Luiss – vanno i miei auguri preminenti poiché, forse conoscendo il mio amore per Johan Huizinga ed Elias Canetti per i loro studi sulle masse, mi ha imposto con autorità di cattedra di leggere La ribellione delle masse di José Ortega y Gasset, un saggio semplicemente monumentale scritto oltre novant’anni fa. Ortega y Gasset, molto prima del trionfo stordente dei social, descrive la massa composta da signorini soddisfatti autorizzati a intervenire su tutto e sempre con violenza, hanno opinioni superficiali eppure tassative, la loro forza è l’onnipresenza e la rapidità, prima si lasciavano governare supinamente, ora vogliono governare, sono affascinati dall’imprevista potenza della loro voce e dalla facilità con cui mettono all’angolo chiunque, e se mettono all’angolo uno che ne sa dieci volte di più tanto meglio, poiché ritengono il loro buon senso più notabile della polverosa cultura.

E’ un atto di vendetta in nome degli oppressi di ogni secolo e latitudine e, scrive Ortega y Gasset, fonda il mondo dello chantage, del ricatto universale, c’è lo chantage della violenza e dell’umorismo, l’una e l’altro bastevoli a esonerare il signorino soddisfatto dalla minima disciplina, cioè dalla morale, e a innalzarsi con lo sforzo di uno schiocco di dita al ruolo simultaneo di parte lesa e giudice.

Se dodici mesi fa avessi saputo dell’arrivo e degli effetti della pandemia, che non saprei definire se non hollywoodiani, avrei pensato a una sanificazione mondiale dei cervelli. Ecco un evento talmente immerso nell’ignoto da scoraggiare il signorino soddisfatto, da farlo (farci) pietrificare di consapevolezza, dell’infinita piccolezza dell’uomo davanti all’enormità del tempo e dello spazio, del mistero assoluto in cui siamo immersi e che abbiamo pensato di dissipare con l’illuminismo – elevato a dittatura – e poi con la dittatura del buonsenso da birreria. Macché. Non ci avrei preso neanche stavolta. Il 2020 è stato l’anno dell’umarell collettivo, tutti lì a guardare a braccia conserte attraverso uno schermo il disastro degli altri, a commentare e irridere gli errori, a lamentarsi dell’inconcludenza, un’indole esplosa come un fuoco d’artificio e salita alla psichedelia con le allucinate norme di regolamentazione natalizia e le allucinanti geremiadi conseguenti, strepitosamente riassunte nell’ironia di Giuseppe De Filippi: zona rossa, proteste di Federtombola.

Perché, e concludo, la novità degli anni recenti è che la ribellione delle masse ha fatto fuori le élite per la ragione che le élite si sono prontamente adeguate alle regole d’ingaggio nuove: campano di tweet, di frasette bacioperugina, di sentenze spaventose e inappellabili, di motteggio da ritornello sanremese, suonano la trombetta del talk show, navigano in superficie e favore di vento, tutto il giorno e tutti i giorni nella sola speranza di venire carucci, che il selfie esca bene. Siamo diventati tutti, in definitiva, gli schiavi descritti da Martin Heidegger, immersi nell’immediata dipendenza di qualsiasi opposizione e qualsiasi combattimento: la faciloneria con cui si è concessa e poi revocata a Roberto Saviano la cittadinanza onoraria di Verona, e il successivo dibattito a pugni sul tavolo, mi sembrano l’ultimo e illustre esempio. Il 2020 è diventato l’anno della ribellione delle masse, ma non si sa più contro chi ci si ribella poiché tutti sono ribelli e tutti sono massa. Quando dovesse sfociare in una ribellione a noi stessi, quello sarà Natale. Un buon Natale.

L’HUFFPOST

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