Quei numeri che non vediamo

Spostiamoci su un piano che sembra diverso ma non lo è. Non lo è affatto. Nel nostro Paese la discussione sull’assetto politico istituzionale è stata sganciata colpevolmente dalla vita reale delle persone. Come se fosse un affare che riguardasse esclusivamente i professionisti della politica e non, come invece è, la qualità della vita dei cittadini e lo stato della nazione. Anche qui dei numeri. Dal 1971 a oggi in Gran Bretagna ci sono stati 10 premier, in Germania cinque cancellieri, in Spagna, nel dopo franchismo, sette primi ministri. In Italia sono stati ventidue diversi. Più di 110 parlamentari hanno cambiato gruppo di appartenenza. Nessun governo nella storia repubblicana è mai durato per un’intera legislatura. La durata media di un gabinetto è poco più di un anno. E questo, fino al 1994, è accaduto senza mai avere alternanza al governo, prassi poi sperimentata grazie al sistema elettorale che prese il nome dall’attuale presidente della Repubblica.

La stabilità e l’alternanza sono la democrazia. La stabilità è il prodotto di leggi e di sistemi parlamentari che, a partire dai regolamenti, difendano le prerogative di governo dell’esecutivo e quelle di controllo dell’assemblea. E dal fatto che a scegliere i governi sia, sulla base di un programma e di una leadership, il corpo elettorale. Gli ultimi sei governi italiani sono stati, legittimamente, formati in Parlamento ma sono stati scelti dai gruppi dirigenti dei partiti, non dai cittadini che, recentemente, si sono trovati in poco tempo a guidare il Paese due coalizioni di orientamento opposto composte da partiti che fino al giorno prima, per non parlare delle elezioni, si erano reciprocamente coperti di contumelie. In questo contesto sembra, quasi un paradosso, essere maturata la convinzione della necessità di una legge elettorale proporzionale della quale peraltro, a sei mesi dal referendum, non si vede il segno. Come per tutto il resto delle riforme annunciate se avesse vinto il «Sì». Il proporzionale, senza cancellierato e con sbarramenti bassi, è fonte certa di instabilità perché sposta sul tornaconto di partito e sulla faticosa alchimia necessaria per garantire la sostenibilità di una maggioranza, tutto il peso degli equilibri del sistema.

Luciano Fontana, direttore di questo giornale, Paolo Mieli, Angelo Panebianco nei giorni scorsi hanno invitato a ragionare sulla necessità di strumenti elettorali che ci consentano invece, finalmente, di avere governi stabili, magari di legislatura. Solo una politica forte di una investitura popolare e certa di governare per cinque anni in attuazione del programma scelto dagli elettori sarà spinta infatti ad avere il coraggio di sfidare i conservatorismi e fare le riforme che servono all’Italia. Lo vediamo in questi giorni — immersi nell’emergenza della pandemia e alle prese con il Recovery fund, la più grande sfida immaginabile per la ripresa del Paese — la politica discute invece affannosamente, tra ultimatum e rinvii, della sopravvivenza di un governo che trascorre ore tra vertici e riunioni di capo delegazioni. Il Paese è imprigionato da una maglia d’acciaio che ne impedisce l’innovazione. Si chiama instabilità, si chiama trasformazione del governo in fine e non in mezzo. E sempre questo è giustificato, per ambedue gli schieramenti, dal pericolo mortale dell’arrivo degli «altri». Il che costituisce così un’amputazione profonda della normale dialettica dell’alternanza che è anima della democrazia.

La stabilità e l’alternanza sono legati. C’è da sperare in un Paese in cui i due schieramenti si rispettino e collaborino alla scrittura delle regole in un clima di convivenza civile, della quale i cittadini spossati sentono il bisogno. Per poi combattersi, magari con nettezza di differenze, sui programmi e sui valori. Un confronto alto, senza delegittimazioni reciproche, con l’ambizione di governi che nascano non solo per impedire che l’altro governi ma per realizzare le riforme, la modernizzazione, la giustizia sociale che costituisce lo scopo precipuo della stessa esistenza dei partiti politici.

C’è un terzo numero, infine, che bisogna tenere sempre d’occhio. Il calo spaventoso del Pil che stiamo vivendo e le sue conseguenze sociali, in primo luogo sul lavoro e sulla sua qualità e quantità. La decrescita non è felice, lo sa chi sta vivendo la perdita della dignità del lavoro e dell’intraprendere.

Una manciata di numeri. Che sono materia utilissima per la coscienza, il dubbio, la ricerca del nuovo. Il maestro Franco Lorenzoni, parlando di Emma Castelnuovo — grande docente e grande matematica — ha scritto: «Nel tempo del confinamento educhiamoci a sconfinare». Educhiamoci, cioè, a immaginare ciò a cui purtroppo non siamo abituati.

CORRIERE.IT

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