«Un processo per stupro» che non ha insegnato nulla
di Gian Antonio Stella
«Mi fijo nun ha fatto niente de male. Nun l’ha ammazzata, ‘sta ragazza. Mi fijo è annato a divertisse. Certo che je piaceva pure a llei d’anna’ a divertisse…». Quarantatré anni dopo le parole della madre di uno degli stupratori di gruppo d’una ragazza di Latina, raccontato allora in un famoso documentario Rai, riassumono decenni di processi simili. Dove alla sbarra, come è successo anche col «caso Grillo», rischiano di finire le vittime… Era invelenita, quella madre, quel giorno, davanti alla cinepresa di «Un processo per stupro». Decisa a difendere con unghie e denti il suo pupone quarantenne accusato con tre amici d’aver attirato con l’offerta di un lavoro una diciottenne disoccupata in una villa di Nettuno dove la ragazza era stata più volte violentata. Macché violenza! Era lei, la novella Circe, ad aver adescato lui perché «se voleva divertì, se no non ci andava con mi fijo, che aveva moglie e un figlio e lei lo sapeva…». Voce di Loredana Rotondo, una delle sei registe del documentario: «Ma se aveva una moglie e un figlio perché ci andava?». «Perché tutti lo fanno! Che, è il primo che lo fa? Suo marito, si ce l’ha, nun ce va?».
Togliete ora gli accenti laziali, la villa sul litorale, il bianco/nero dei filmati di allora: son poi così abissalmente diverse le surreali scusanti accampate da quella madre popolana dell’Agro Pontino da quelle sbraitate l’altro giorno nel web da Beppe Grillo in difesa del figlio e dei suoi tre amici accusati di uno stupro di gruppo nella villa in Costa Smeralda? «… non è vero niente, che c’è stato uno stupro, non c’è stato niente… una persona che viene stuprata la mattina il pomeriggio va in kytesurf e dopo otto giorni fa la denuncia… c’è un video in cui si vede che c’è un gruppo che ride, ragazzi di 19 anni che si divertono e ridono in mutande e saltellano con il pisello, così… perché sono quattro coglioni…». Insomma, quasi una ragazzata…
Colpevoli? Innocenti? Decideranno i giudici. Ma l’ennesimo ricorso alla difesa degli accusati basata sulla sistematica demolizione della vittima, senza un’incertezza, un dubbio, un accenno alle troppe donne annientate da stupri simili, dimostra una volta di più quanto la storia, spesso, non riesca affatto a essere «magistra vitae». Tanto più se non viene solo dimenticata. Ma rimossa. Abolita. Cancellata.
Come è accaduto appunto al documentario «Un processo per stupro», girato nel ’78, trasmesso dalla Rai in una tarda serata dell’aprile ‘79 e accolto da un successo così impattante (tre milioni di telespettatori) da guadagnarsi a furor di popolo una nuova messa in onda in prima serata con una audience addirittura triplicata. Quanto sarebbe bastato a qualunque programma per venire riproposto chissà quante volte in tivù se non fosse stato azzoppato da una sentenza. La quale accolse la pretesa di qualche avvocato che, finalmente a disagio per i toni, le battute da bordello, le insinuazioni usate mettendo alla sbarra la ragazza anziché i suoi stupratori, condannati in primo grado (per delitto contro la moralità pubblica, non contro la persona!) a pene risibili con la condizionale e a un risarcimento miserrimo (mezzo milione di lire a testa: 1.789 euro attuali), chiese il diritto all’oblio. Niente più nomi, niente più facce, niente più indignazione…
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