Draghi e Mattarella, due contro tutti
Proprio tre mesi fa, il 13 febbraio, fa giurava il governo Draghi, suscitando una certa sorpresa, nella sua formazione, perché più “politico-tecnico” che “tecnico-politico”, scelta compiuta in nome di un sano realismo parlamentare, con l’intento (o l’auspicio) che il “coinvolgimento” e la “responsabilizzazione” dei partiti avrebbe consentito di sminare il percorso di provvedimenti impegnativi evitando le crisi di rigetto proprie dei commissariamenti. Venendo meno, in tal modo, a una regola aurea che i vecchi politici sono soliti ripetere: “Più è larga la maggioranza, più è opportuno, in presenza di opposti, puntare su un profilo più tecnico”.
Tre mesi dopo la grande chiamata di Draghi, da parte del capo dello Stato, per salvare la patria di fronte al default bipartisan dei partiti, proprio dal Quirinale arriva un segnale di preoccupazione in relazione al ritardo sul Recovery, con la convocazione, avvenuta nella giornata di giovedì, dei presidenti di Camera e Senato al Colle (leggi qui Giuseppe Colombo). Gesto che recepisce, a sua volta, una preoccupazione del premier, che pur vorrebbe varare i primi decreti nei tempi previsti, ma è costretto a prendere atto di una serie di intoppi che ne ritardano l’approvazione, e non solo sul Recovery, in relazione al capitolo Semplificazioni e governance. Anche il decreto Sostegni, per dirne un’altra, che doveva arrivare alla fine di aprile, è in clamoroso ritardo, proprio per l’esigenza di trovare una quadra di fronte alle richieste dei partiti. E a un clima un atteggiamento complessivo di conflittualità che poco favorisce un coerente percorso di governo.
L’iniziativa del Quirinale, che trasmette un messaggio neanche tanto implicito, è la presa d’atto di una dinamica che questi tre mesi hanno cristallizzato e che i prossimi rischiano di acuire. Sono stati cioè un costante braccio di ferro tra il sistema politico in crisi e Draghi, che di quella crisi è l’esito non la causa: ogni volta che il premier ha assunto la decisione su di sé, si è compiuto un passo in avanti, ogni qual volta è stato costretto a mediare con i partiti si corre il rischio palude. È avvenuto così sul terreno sanitario, con la rivoluzione della logistica, frutto anche di un ripristinato ordine istituzionale con le nomine all’interno della tolda di comando. È avvenuto col “rischio calcolato” sulle riaperture, tra le spinte al selvaggio liberi tutti e una linea di continuità col governo precedente. È avvenuto sul Recovery che ha superato il primo step grazie alla forza reputazionale del premier e si è incagliato, sui primi dossier, appena arrivato in cdm o in Parlamento (vai alla voce: giustizia).
È la fotografia di uno scollamento, tra il piano istituzionale e il piano più strettamente politico che, nella scommessa fatta al momento della formazione del governo, avrebbero dovuto ricomporsi. In condizioni normali le larghe intese dovrebbero essere questo: l’occasione, in nome di obiettivi comuni, di una maturazione comune, per poi tornare radicalmente alternativi. In un sistema politico collassato, gli antichi vizi precipitano nel nuovo quadro, nell’allegria di una campagna elettorale permanente. E quel che sta accadendo è proprio questo.
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